Comunicare, partecipare, collaborare

Teorie e buone pratiche negli enti di ricerca



Per chi era presente, per chi avrebbe voluto e non ha potuto partecipare, per chi non lo sapeva ma sarebbe stato interessato, ecco una sintesi della giornata di studio “Ricercare e Comunicare 2009-2019. Teorie e pratiche di comunicazione al CNR”, tenutasi il giorno 13 dicembre 2019 presso l’Area della Ricerca del CNR di Milano.

A cura di:
Alba L’Astorina (CNR-IREA, Studi sociali su Scienza, Educazione e Comunicazione)
Rita Giuffredi (CNR-IREA, Studi sociali su Scienza, Educazione e Comunicazione)
Valentina Grasso (CNR-IBE, Consorzio LaMMA)

Per qualsiasi estratto preso da questa pagina, raccomandiamo di citare così la fonte:
Alba L’Astorina, Rita Giuffredi e Valentina Grasso (a cura di). 2020. “Comunicare Partecipare Collaborare. Teorie e buone pratiche negli enti di ricerca”. Cnr Edizioni. ISBN 978 88 8080 380 5 Doi: 10.26324/2020Ricomunicare.

Introduzione

Nel 2009, nel corso della Giornata "Ricercare e Comunicare. Teorie e buone pratiche negli enti di ricerca", venivano presentati i risultati delle prime indagini sulla comunicazione della rete scientifica al Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Canali, obiettivi, strumenti, risorse, professionalità, competenze e aspettative degli attori coinvolti nel processo di comunicazione venivano scandagliati allo scopo di comprendere la misura e il senso – per i ricercatori – di un investimento in attività considerate per anni estranee o non prioritarie per la ricerca. Ne emergeva un quadro molto ricco e ancora poco strutturato, che lasciava intravedere nuovi ruoli per chi fa ricerca e nuove prospettive nel rapporto con la società.
A 10 anni di distanza, il contesto è cambiato in maniera radicale: scienza aperta, citizen science, ricerca e innovazione responsabili (RRI), social media, sono solo alcuni dei fenomeni che hanno investito il mondo scientifico, ridefinendo strumenti, modalità, attori. Ma quanto questo cambiamento sta riguardando la comunità scientifica del più grande ente multidisciplinare di ricerca italiano, il CNR? Quanti progetti oggi includono nell'attività di ricerca soggetti esterni alla comunità scientifica, come stakeholder, policymaker o la società civile? E come vengono raccontate queste trasformazioni dai ricercatori? Quanto il loro coinvolgimento in attività di ricerca partecipata o di open science è motivato dalla piena consapevolezza della necessità di intraprendere nuovi modi di fare ricerca in una società sempre più complessa?
Questi alcuni dei quesiti che lanciamo in questa giornata in cui il confronto tra riflessioni e racconto di esperienze e pratiche è arricchito dal contributo delle diverse prospettive di ricercatrici e ricercatori del CNR e di altre istituzioni di ricerca, studiosi ed esperti di comunicazione e di partecipazione pubblica presenti alla giornata.

Alba L'Astorina (CNR-IREA), Rita Giuffredi (CNR-IREA), Valentina Grasso (CNR-IBE/Consorzio LaMMA)

I saluti introduttivi

Sotto la neve, l'apertura della giornata avviene in musica con il coro in versione "acusmatica":

Vi saluto nella veste di Responsabile della sede di Milano dell’IREA; abbiamo il piacere di avere qui in sala anche il nostro direttore Riccardo Lanari. Ho il piacere di inaugurare questa giornata di studio che celebra i 10 anni della prima omonima giornata su questi temi che si è svolta proprio in quest’Area della Ricerca a Milano. Ho la personale sensazione che in 10 anni il rapporto tra scienza e società non sia molto migliorato, lo dimostrano i tanti conflitti su temi caldi cui spesso assistiamo, e non gioca a favore di una relazione serena l’immagine che spesso lo stesso scienziato trasmette di sé, come di una persona distaccata e separata dalla società. Perciò ben venga una riflessione aggiornata su questo tema e l’indicazione di nuove vie che richiedono molto coraggio nel comunicare alla società e all’opinione pubblica i risultati e le pratiche della scienza.

Paola Carrara, responsabile sede di Milano IREA

 

Sono contento di essere qui, seguo quando posso le attività della vostra comunità perché ritengo che vi occupiate di un tema molto importante. Leggendo il titolo di questa giornata – "Ricercare e comunicare" – ci si potrebbe chiedere perché devono comunicare i ricercatori e non i giornalisti di professione? Io credo che sia importante che ricercatori comunichino in prima persona, ma credo che dovrebbero comunicare i “semilavorati”, cioè le domande e non solo i risultati di ricerca per spiegare che ci sono problemi aperti, per evitare di dare una immagine statica della scienza che invece è in continuo cambiamento.

Sulla citizen science c’è tanto fermento, anche nelle scienze del mare; tuttavia mi chiedo se la citizen science non sia a volte troppo antropocentrica, laddove riduce il reale al luogo dove ci sono uomini che osservano (“dal pianeta vuoto al pianeta pieno”): ma cosa succede dove non c’è un osservatore che osserva, in the dark side of the moon?

I tempi lunghi sono il mio pallino di geologo e trovo che ci sia una cosa difficile da comunicare; per la comunità scientifica e la società credo sia importante comprendere i cambiamenti indotti dall’uomo nel tempo, non solo quelli in tempi recenti. Siamo ad un momento critico, con una crescita esponenziale della popolazione che sta mettendo a serio rischio la capacità del pianeta di sostenere questo aumento, ma molti problemi che abbiamo nei sottosistemi dell’ambiente – come ad esempio nei sistemi marini o costieri – provengono da una serie di scelte storiche fatte dall’uomo – come le deforestazioni o la deviazione dei fiumi avviate, la stessa rivoluzione agricola avviata millenni fa –  in epoche precedenti a questa, in cui l’uomo ha introdotto dei disequilibri: che memoria abbiamo dei danni fatti dalle generazioni precedenti? O quanto ci costa questo oblio?

Io studio l’ambiente sottomarino, quello che oggi si chiama marine landscape, il paesaggio sottomarino. La Costituzione preserva la difesa del paesaggio marino assimilandolo ai beni culturali: paesaggio ambientale e storico costituiscono il patrimonio culturale di un paese, ma ci si riferisce sempre al paesaggio che si vede. Ma c’è un paesaggio che non si vede, che pure è importante, di cui la popolazione non sa nulla e spesso neanche gli scienziati possono dire molto; mi riferisco al paesaggio sottomarino, a cui accediamo solo attraverso metodi indiretti e non grazie all’esperienza diretta. Abituare il pubblico a vedere questo paesaggio invisibile è importante perché gli aiuti che l’oceano ci sta dando potrebbero finire presto (acidificazione, amento della temperatura, dilatazione, aumento livello mare, rifiuti a mare). A terra si sta comprendendo molto sulla economia circolare. Ma che spazio c’è per la blue economy? Difficile fare comunicazione su questi temi ma bisogna provarci per comprendere il fondale che non si vede e che dobbiamo rispettare.

Fabio Trincardi, direttore Dipartimento Scienze della Terra e Tecnologie dell’Ambiente CNR e coordinatore di BlueMed CSA

Dall'informazione alla partecipazione: testimonianze da un percorso

Relazione a invito di Bruna De Marchi

Bruna De Marchi è attualmente ricercatrice associata presso il Senter for Vitenskapsteori (Centro per lo studio della scienze naturali, sociali ed umane) dell’Università di Bergen (SVT-UiB) in Norvegia. Per lunghi anni ha coordinato il Programma Emergenze di Massa dell'Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia e negli anni '90 ha lavorato come esperta nazionale distaccata presso il Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea ad Ispra. Attualmente è coinvolta in un progetto di citizen science in Garfagnana che incoraggia il coinvolgimento attivo della popolazione nella produzione di dati scientifici e di informazioni rilevanti per descrivere e analizzare il proprio stato di salute. I suoi principali interessi di ricerca e ambiti di intervento professionale riguardano le crisi e le emergenze ambientali e sanitarie, con particolare riguardo alla governance dei rischi affrontata con modalità inclusive e partecipative.

Nel suo intervento, Bruna De Marchi passa in rassegna la sua esperienza personale e di ricerca in relazione ad alcune tra le più importanti emergenze italiane, a partire dal terremoto del Friuli e l’incidente industriale di Seveso, entrambi nel 1976, che hanno segnato una svolta nelle politiche di preparazione e risposta ai disastri, incluso il modo di comunicare con i cittadini. Bruna si e’ occupata inoltre del ciclone Katrina negli Stati Uniti nel 2005, di vari episodi alluvionali in Italia e altri paesi europe, del il rischio di incidenti rilevanti in Friuli, Veneto e Lombardia e dell’inquinamento ambientale di Manfredonia. Nel corso del tempo, ha visto ampliarsi la collaborazione tra esperti con diversi background scientifici e professionali e una sempre maggior apertura a “saperi non esperti” e al coinvolgimento dei cittadini nella prevenzione, preparazione e risposta alle emergenze. Il suo racconto fornisce molti spunti di riflessione critica sulla comunicazione, sulla partecipazione pubblica e sul ruolo degli esperti nel dibattito su scienza e società. Riportiamo qui di seguito alcuni brevi stralci dal suo intervento, che si può scaricare per intero:

Quando ho cominciato a lavorare, le scienze sociali avevano, e in parte hanno ancora ora, nei confronti delle scienze dure quella che si chiamava la "physics envy", una sorta di invidia per i numeri che rendevano le altre ricerche più scientifiche, più esatte. Questa visione, in parte corretta, è però molto parziale, perché dietro ai numeri, come dietro alle parole, si può nascondere moltissimo e allora bisogna fare attenzione ai numeri, saper “dare i numeri” è importante, ma non basta. Bisogna imparare a leggere in numeri; chiedere/si come sono stati ottenuti/costruiti; chiedere/si che cosa significano (anche in termini di policy) e fare/si domande (apparentemente) stupide. Lo studio accademico è importante ma il sapere disciplinare e «disciplinato» non basta; bisogna ricordarsi che c'è un mondo là fuori di cui tener conto, bisogna andare sul campo a osservare, ad ascoltare, imparare a riconoscere diverse conoscenze e competenze.

Nel corso di questi decenni, la collaborazione tra esperti di diversa provenienza, come scienziati sociali e di scienze dure, si è rafforzata, ma all’inizio della mia attività si chiedeva ai sociologi solo di intervenire alla fine di un percorso di ricerca.

Dalla nostra esperienza sul campo, in particolare a Marghera, abbiamo estratto quattro principi che dovrebbero guidare la gestione del rischio: la condivisione di conoscenze, prendere in considerazione i diversi tipi di conoscenza di cui diversi attori sono portatori: specialistiche e non, teoriche o empiriche, derivate dallo studio o dall'esperienza quotidiana; la congruenza, cioè coerenza sia interna sia esterna di idee, proposte e piani, e alla loro effettiva praticabilità; l’integrazione delle risorse che consiste nel mettere insieme conoscenze, abilità e reti di relazione a cui i diversi attori hanno accesso; l’ultima è la più importante, la fiducia che è una conditio sine qua non per una effettiva ed efficace collaborazione fra partner, istituzionali e non. Non è sinonimo di unanimità di prospettive e si riferisce piuttosto al tipo di rapporti fra attori. È molto importante, perché una volta intaccata, la fiducia può difficilmente essere ricostruita.

Ricercare e Comunicare 2009-2019:
a 10 anni dalle prime indagini al CNR

Alba L'Astorina

Alba L'Astorina lavora a Milano presso l’Istituto per il Rilevamento Elettromagnetico dell’Ambiente, del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IREA-CNR), dove si occupa di modelli teorici e pratiche di comunicazione pubblica della scienza. Dopo aver svolto per anni attività di comunicazione istituzionale, ha approfondito il ruolo che la comunità scientifica svolge, attraverso le sue pratiche e le sue narrazioni, nella complessa relazione con la società. Nel 2006 ha contribuito alla creazione del Gruppo CNR “Studi Sociali su Scienza, Educazione e Comunicazione”.
Dal 2015 collabora con la rete LTER (Long Term Ecological Research) per l’ideazione e realizzazione dei Cammini LTER Italia, eventi itineranti di comunicazione informale della scienza. Nel 2018, ha curato con Monica Di Fiore il volume Scienziati in affanno? Ricerca e innovazione Responsabili in teoria e nelle pratiche” (CNR Edizioni). Altri temi di interesse sono la citizen science e la post-normal science.

Questa parte prende spunto da una frase che ho letto in un volume sull’innovazione digitale sociale “Cure ribelli” curato da una collega che sarà presente nel pomeriggio, e che mi sembra possa riferirsi al processo di ricerca, il quale, per essere innovativo deve “coltivare un’eccellente memoria collettiva di ciò che è stato fatto prima e altrove”.
E allora facciamo un esercizio di memoria collettiva e torniamo indietro per vedere, sul tema della comunicazione della ricerca, cosa si diceva e come la si affrontava 10 anni fa. E partiamo proprio dall'Area di Ricerca del CNR di Milano, perché qui si svolgeva la prima di una serie di Giornate di studio dal titolo “Ricercare e Comunicare: teorie e pratiche negli enti di ricerca”.
La Giornata del 2009 presentava il tema della comunicazione della ricerca all’interno di una riflessione più generale sul rapporto tra scienza e società che stavamo promuovendo come gruppo di ricerca del CNR costituto, insieme ad Adriana Valente pochi anni prima. Il gruppo condivideva attività di indagine, ricerca e sperimentazione sui principali aspetti della didattica e della comunicazione della scienza, allo scopo di comprendere e valorizzare la relazione tra conoscenza scientifica e società.

La comunicazione non è solo una pratica ma è anche tema di studi e sperimentazione di un ampio settore multidisciplinare che esplora il rapporto tra conoscenza scientifica e società attraverso approcci metodologici tipici delle scienze umane e sociali.

Qui vedete gli atti elettronici di quella Giornata che con la collega Giuliana Rubbia avevamo prodotto, in maniera un po’ naif, e che hanno resistito ai tanti cambi di siti web che ci sono stati da allora.
La Giornata era articolata in due momenti principali: nella prima parte si parlava di comunicazione a partire dai risultati di alcune indagini al CNR; nella seconda parte ospitavamo il racconto diretto delle esperienze di comunicazione di ricercatrici e ricercatori del CNR e di altre istituzioni.
Questa formula di combinare momenti teorici e racconto di esperienze pratiche ci consentiva di affermare alcune cose: innanzitutto, che la comunicazione non è solo un’attività pratica, ma è tema di studi e di sperimentazione di un ampio settore multidisciplinare che esplora – attraverso approcci metodologici tipici delle scienze umane e sociali – gli ambiti in cui agisce la conoscenza scientifica: da quelli legati all'impatto dell’innovazione tecno-scientifica nella società, al rapporto tra scienza, società e politica, fino alle opportunità di accesso alla conoscenza che le tecnologie digitali e open oggi aprono per un’ampia categoria di soggetti dentro e fuori la comunità scientifica.

La comunicazione non è un’attività neutrale, chi comunica porta con sé visioni esplicite e implicite di scienza e di come dovrebbe essere la relazione con la società.

La seconda cosa che ci sembrava fondamentale affermare è che la comunicazione non è un’attività neutrale, come viene spesso rappresentata, la trasmissione di contenuti scientifici da chi sa a chi non sa. Chi comunica porta con sé visioni – esplicite o implicite – di scienza e le sue idee, le sue opinioni su come dovrebbe essere la relazione con la società sono parte integrante del messaggio.
Le indagini che presentavamo nella giornata del 2009 esploravano queste due direzioni: la prima, partita nel 2007, cercava di comprendere come stava rispondendo la rete scientifica del CNR alla crescente richiesta di comunicazione proveniente da più parti: quali le attività messe in campo, i pubblici preferiti, i canali più usati e le motivazioni che spingevano i ricercatori a impegnarsi in attività considerate non prioritarie per chi fa ricerca e spesso non valutate ai fini della carriera di un ricercatore? La seconda, che si era svolta nel 2008 nell’ambito del primo seminario di formazione sulla comunicazione rivolta ai dipendenti del CNR, investigava gli immaginari di scienza dei partecipanti al corso. I risultati di entrambe le ricerche confluivano in un volumetto dal titolo “La scienza condivisa”.

Le indagini sulle pratiche di comunicazione e sugli immaginari degli scienziati

Il nostro lavoro di ricerca si inseriva in un contesto internazionale in cui crescevano le aspettative verso la comunicazione degli scienziati come fattore cruciale per contrastare due fenomeni principali: il disinteresse del pubblico (ed in particolare dei giovani) nei confronti della scienza e la crisi di fiducia nelle istituzioni che imperversava soprattutto nel mondo anglosassone. Fino ad allora si era pensato che il problema risiedesse nella mancanza di conoscenze scientifiche del pubblico, e in generale nello scarso interesse e comprensione dell’importanza della scienza per la società. Ma poi molti studi hanno dimostrato che la questione della fiducia è molto più complessa, come già Bruna ci ha spiegato nel suo intervento e non può ridursi ad un gap di conoscenza o interesse da parte del pubblico (deficit model).
Si comincia allora a ragionare sul ruolo degli scienziati e della comunicazione nella relazione tra scienza e società. Tra il 2006 e il 2007, due prestigiose istituzioni, come la britannica Royal Society  e il CNRS francese promuovono una serie di indagini che coinvolgono migliaia di ricercatori. I due studi hanno in realtà due obiettivi diversi che ben rappresentano le varie prospettive con cui è stato sempre affrontato il tema.
L’indagine dell’istituzione britannica, la stessa che negli anni ‘80 aveva pubblicato il Rapporto Bodmer sul Public Understanding of Science (poi diventato noto come PUS) ha un fine pragmatico che parte da un assunto di base: i ricercatori devono comunicare di più per motivi che vanno dalla public accountability, alla necessità di aumentare il supporto finanziario, sociale, politico alla scienza e l’attrattività per i giovani. Capire perché gli scienziati non comunicano abbastanza, perché non lo fanno bene, oppure cosa li motiverebbe maggiormente è importante, secondo la Royal Society, per rimuovere quegli ostacoli o promuovere incentivi atti a mettere i ricercatori nelle condizioni di assolvere ad un compito che si ritiene doveroso. Il messaggio in parte va anche alle istituzioni pubbliche che devono riconoscere la missione di chi fa ricerca, che non può più solo limitarsi a produrre conoscenza scientifica e pubblicare paper.
Anche nello studio del CNRS si afferma l’importanza della comunicazione degli scienziati per i motivi menzionati ma l’accento è posto sugli aspetti critici della relazione scienza–società. Dalla serie di interviste dell’istituzione francese a ricercatori di tutte le discipline, emerge la soggettività del punto di vista del ricercatore e le diverse narrazioni della scienza. Significativo il titolo di un capitolo del Rapporto del CNRS: “Les rapports sciences-societé: une affaire de communication?” In questa domanda c’è tutta l’ambiguità e nello stesso tempo la complessità di un’attività che può migliorare ma anche inasprire la relazione tra scienza e società, come hanno dimostrato casi come lo scandalo della “mucca pazza” o il dibattito polarizzato sugli OGM.
Da quel momento le indagini che investigano lungo questa sorta di doppio binario: da un lato le attività di comunicazione e le pratiche di ricerca degli scienziati, dall’altra i loro immaginari, le loro visioni e le relative narrazioni, si sono moltiplicate in tutta Europa e nel mondo; nel 2012, per la prima volta una intera sessione del Public Communication of Science and Technology (PCST) – la rete più importante di studiosi e professionisti della comunicazione della scienza – è dedicata a questo tema.
La richiesta di un maggior impegno dei ricercatori nelle attività di comunicazione e di dialogo con la società stava peraltro entrando anche nell’agenda della ricerca europea attraverso i Programmi Quadro (PQ), il principale strumento di finanziamento della ricerca scientifica in Europa, che da un certo momento in poi non dettano solo le priorità tematiche della ricerca ma anche il modo con cui gli scienziati devono condurla. Nello specifico, il VI programma quadro inaugurava una linea di ricerca ispirata ad un Action Plan “Science and society” del 2001 che intendeva “incoraggiare rapporti armoniosi tra scienza e società grazie ad un dialogo consapevole tra ricercatori, industriali, responsabili politici, mass media e cittadini.” Una tendenza che sarebbe proseguita nei successivi PQ, e soprattutto in Horizon2020, come vedremo tra poco.

Per contrastare la crisi di fiducia verso la scienza non basta informare di più il pubblico. Anche gli scienziati devono fare la loro parte: comunicando e dialogando di più con la società.

Tornando alle indagini al CNR che abbiamo presentato qui nel 2009, anche noi avevamo intuito che, per comprendere il rapporto tra scienza e società un punto di partenza dovessero essere le pratiche dei ricercatori: come rispondeva la rete scientifica alle richieste di maggiore comunicazione e partecipazione che arrivavano da vari fronti? E cosa ne pensava?
Il CNR, in particolare, ci sembrava un osservatorio interessante da cui partire per esplorare – attraverso le tantissime attività di comunicazione svolte dalla rete scientifica nei vari istituti sparsi in Italia – lo stato di questa relazione. Alcune sue peculiarità ce lo avevano fatto pensare: la capillare presenza di sedi del CNR sul territorio nazionale, la concentrazione in alcune Aree della ricerca, come questa di Milano, in cui convivono diversi istituti ma anche altre istituzioni (qui ad esempio abbiamo INAF e INGV); la presenza di ricerche interdisciplinari con forti ricadute applicative e con un radicamento nella società produttiva e culturale locale.
Ed in effetti dalle indagini risultava un quadro molto ricco, sebbene poco strutturato, di iniziative diverse rivolte a pubblici vari in contesti e con motivazioni differenziati. Qui ricordo solo un paio di aspetti che mi sembrano rilevanti perché creano un ponte ideale con quanto emergerà dalle indagini condotte quest’anno e i cui risultati verranno descritti nelle presentazioni successive di Rita e Valentina.
Il primo riguarda i canali di comunicazione: dall’indagine risultava che il sito web era il canale privilegiato dagli istituti per una comunicazione pubblica, sebbene in generale a quel tempo i siti fossero poco attraenti e accessibili, con un linguaggio molto specialistico e con poca possibilità di interazione con i visitatori. Vedremo tra poco con Valentina e Rita ma anche con Monica Di Fiore nel panel com’è cambiata la comunicazione tramite il sito istituzionale ed in genere attraverso le piattaforme online in cui è possibile creare i propri contenuti.
Un altro dato interessante riguardava l’attenzione verso una “comunicazione locale”, quella, cioè, che non passa attraverso l’ufficio di comunicazione del CNR ma viene svolta in prima persona dai singoli ricercatori e si basa su contatti personali con giornalisti o altre istituzioni presenti nel territorio dove sono collocate le strutture di ricerca.

La comunicazione “locale” potrebbe configurare un modello intermedio e alternativo rispetto ai poli opposti in cui spesso si collocano le attività di comunicazione istituzionale, il marketing di tipo aziendale e l’autorevolezza autoreferenziale, perché favorisce una relazione più diretta tra i soggetti che vi partecipano.

Parliamo di iniziative molto diversificate che coinvolgono il pubblico locale – studenti ma anche cittadini – in luoghi spesso informali e poco convenzionali: musei, piazza, teatri o gli ambienti naturali dove si svolgono le ricerche. Spesso si svolgono in momenti particolari, che avevamo definito di “emergenza”, quando i ricercatori riscoprono l’importanza di stringere relazioni con la società. Nel 2008, ad esempio, la Ricerca Calpestata, aveva portato in piazza centinaia di ricercatori per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla scarsa attenzione verso la ricerca da parte della politica o denunciare il lavoro precario. Era stata l’occasione per spiegare a migliaia di persone cosa fanno i ricercatori e cosa la ricerca può fare per la società.
Nel panel del pomeriggio ascolteremo il racconto di alcune di queste esperienze, dove si comprende che in questi contesti non si comunicano solo risultati di ricerca ma anche esperienze, emozioni e visioni di società. Ci sembrava un risultato interessante, in quanto la comunicazione locale potrebbe configurare un modello di comunicazione intermedio e alternativo rispetto ai due opposti poli in cui spesso si collocano le attività di comunicazione istituzionale – il marketing di tipo aziendale o l’autorevolezza autoreferenziale e favorire quindi una relazione più diretta e condivisa tra i soggetti che vi partecipano.

Le sfide dell’apertura della scienza e degli scienziati

E mi fermo qui con l’esercizio di memoria collettiva. Se facciamo un salto avanti di 10 anni, vediamo che il contesto è cambiato in maniera radicale: apertura della scienza, citizen science, ricerca e innovazione responsabili (RRI), social media, innovazione digitale, sono solo alcuni dei fenomeni che hanno investito il mondo scientifico, ridefinendo strumenti, modalità, attori e ruoli della ricerca. Oggi sono gli stessi soggetti – pubblici e privati – che finanziano la ricerca scientifica ad aver reso inderogabile la richiesta di comunicare, chiedendo di andare oltre il trasferimento dei risultati e dei prodotti, e prediligendo pratiche capaci di aprire il processo stesso di ricerca al coinvolgimento pubblico fin dalla condivisione della domanda e del processo di ricerca. Un fare “scienza con e per la società”, per usare un'espressione introdotta dal Programma Quadro Europeo Horizon2020 e in particolare della RRI, dove tutti possano diventare co-responsabili dell'innovazione; dove la pluralità di conoscenze, esperienze, aspettative e visioni possa farsi garanzia di una nuova qualità della ricerca e delle politiche che ne derivano, come suggerisce la scienza post-normale .
Tornando alla frase con cui ho dato avvio a questa presentazione e pensando a quello che succedeva anni fa, in questo contesto forse oggi non ha più senso chiedersi se i ricercatori comunicano ma piuttosto in che misura il cambiamento radicale a cui assistiamo in questi anni stia modificando le pratiche della ricerca. Quanti progetti oggi includono nell'attività di ricerca soggetti esterni alla comunità scientifica, come stakeholder, policymaker o la società civile? E come vengono raccontate queste trasformazioni dai ricercatori?
Cercheremo di capirlo insieme, a partire ancora una volta dalla comunicazione della rete scientifica del CNR.

La rete scientifica del CNR: narrazioni e autonarrazioni dal web

Valentina Grasso

Valentina Grasso, ricercatrice del CNR, si occupa di comunicazione della scienza presso l’Istituto per la Bioeconomia del CNR (IBE-CNR) dal 2003 dove ha lavorato su progetti di divulgazione e outreach sui temi della comunicazione dei cambiamenti climatici e della sostenibilità e sulla loro percezione pubblica. Dal 2010 collabora con il Consorzio LaMMA (servizio meteo della Toscana) per cui cura le attività di comunicazione istituzionale e scientifica; si occupa inoltre di comunicazione del rischio in ambito meteorologico. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Firenze studiando l’uso dei social media in emergenza e in particolare le pratiche di uso di Twitter in allerta meteo.

A 10 anni di distanza dalla indagine del 2009, di cui parlava Alba, non possiamo non constatare quanti incredibili cambiamenti siano avvenuti nel mondo della ricerca e della sua diffusione, soprattutto sotto la spinta delle tecnologie digitali sempre più accessibili. Oggi ci sono più canali e opportunità di comunicazione di quante ce ne siano mai state.
Ma questo scenario, come si riflette sulle pratiche di comunicazione dell’ente nel quale lavoriamo, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR)?

Un’analisi dei siti web della rete scientifica del CNR

Per rispondere a questa domanda in questa prima fase della ricerca abbiamo analizzato i siti web della rete scientifica del CNR, che dall’indagine del 2009 erano risultati il principale canale di comunicazione pubblica degli istituti. L'analisi ha preso in considerazione tutti i siti degli istituti elencati nel portale www.cnr.it nella sezione sezione Organizzazione/Istituti.

Nel mondo della ricerca e della sua diffusione sono avvenuti incredibili cambiamenti, soprattutto sotto la spinta delle nuove tecnologie digitali, sempre più accessibili.
Ma questo scenario, come si riflette sulle pratiche di comunicazione dell’ente nel quale lavoriamo, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR)?

Negli ultimi anni (2017/2019) la rete scientifica del CNR ha attraversato più fasi di ristrutturazione che hanno avuto come esito sia la soppressione di istituti che la creazione di nuovi grazie agli accorpamenti, con una riduzione del numero totale degli istituti e la creazione di nuove denominazioni.
A novembre 2019 risultavano 91 gli istituti della rete scientifica elencati nella sezione “Istituti” del portale CNR; da questi 91 sono stati esclusi dall’analisi quelli che non risultavano raggiungibili al momento dell’indagine e i siti ancora “in costruzione” perché relativi a istituti di nuova formazione.
Abbiamo visitato ciascuno degli 81 siti web selezionati, prestando una particolare attenzione ad alcuni elementi che abbiamo ritenuto denotassero il tipo e il grado di attenzione alla comunicazione della ricerca, sia come temi che come pratiche. L’analisi di questi elementi è stata prima indagata a livello di istituto ma poi aggregata per Dipartimenti. Il CNR infatti è organizzato in 7 Dipartimenti che raccolgono gli istituti della rete scientifica che lavorano su ambiti disciplinari affini. L'analisi per Dipartimenti offre una chiave di lettura interessante per comprendere se l’attenzione verso la comunicazione possa essere più matura in certi ambiti disciplinari dove le richieste di informazione della società si sono dimostrate più incalzanti, come ad esempio nel settore dell’ambiente.

  1. Un primo elemento analizzato è la lingua del sito così come si presenta accedendo dal link che compare dalla pagina del portale CNR. Esiste infatti una percentuale di siti che nonostante abbia un dominio “.it” presenta una versione del sito soltanto in lingua inglese. Il parametro della lingua è interessante perché ci fornisce una indicazione dell’interlocutore atteso: un istituto che descrive la propria attività solo in lingua inglese si può supporre che si rivolga primariamente alla comunità scientifica, dove la lingua inglese è prevalente. Al contrario, un istituto che presta maggiore attenzione alla comunità estesa, a partire dalla propria comunità locale, agli stakeholder, i referenti politici e in generale alla società nel suo complesso, sceglierà di adottare in primis l’italiano per assicurarsi che i propri contenuti siano accessibili ai vari pubblici.
    Se l’italiano è la scelta prevalente emerge un 20% che opta invece per l’inglese, con una percentuale variabile nei diversi dipartimenti. Colpisce il dipartimento di scienze fisiche e tecnologie della materia (DSFTM), dove tutti i siti hanno la pagina di ingresso in lingua inglese e lo stesso sito del Dipartimento, sebbene sia un dominio “.it”, è in lingua inglese. Situazione diametralmente opposta nel Dipartimento di Scienze umane, e sociali, patrimonio culturale, (DSU), dove tutti i siti sono in italiano.
  2. Altro elemento preso in esame è la pubblicazione in home page di un breve testo di presentazione della missione dell’istituto o delle principali attività di ricerca. Presente in circa la metà dei siti degli istituti, possiamo considerare questo breve testo il segno di una volontà a spiegarsi in modo più semplice e risultare più accessibili al pubblico dei non esperti. Il Dipartimento dove questo elemento è meno presente è nuovamente quello delle scienze fisiche e tecnologie della materia, DSFTM, che sembra quindi rivolgersi primariamente ad una platea di esperti piuttosto che al pubblico generico.
  3. Abbiamo poi osservato nella stragrande maggioranza dei siti di istituto una sezione news/eventi presente nel menu di navigazione, e talvolta richiamata con un riquadro in evidenza sulla home page. Sono pochi gli istituti che non prevedono le news, ma la modalità di pubblicazione di queste informazioni è comunque piuttosto ampia: cambia la frequenza di aggiornamento, la varietà del tipo di informazioni comunicate, dal semplice calendario di conferenze a più articolate narrazioni su progetti, risultati di ricerca o attività in corso; e soprattutto varia la content curation, da un semplice elenco di link ad un compendio di post graficamente curati fino all’inclusione in home page di flussi informativi provenienti dalle piattaforme di social networking, come Twitter, Youtbe o Facebook.
  4. Altro elemento dell’indagine considerato è stata la presenza nel sito di una sezione o sottosezione dedicate alle scuole o ad attività con gli studenti. Abbiamo preso nota sia delle attività istituzionali inquadrate nel contesto dell’Alternanza Scuola-Lavoro (l’Alternanza-Scuola-Lavoro si riferisce ad una didattica innovativa per cui gli studenti sono tenuti a svolgere un determinato numero di ore all’interno di strutture come aziende, associazioni, enti di ricerca o altri contesti lavorativi) che di iniziative meno strutturate come l’organizzazione di seminari offerti alle scuole della zona o eventi aperti agli studenti. Per con differenze articolazioni, una sezione rivolta al mondo della scuola è presente in circa un terzo dei siti istituzionali. In alcuni casi si tratta di progetti specifici ben strutturati con un’offerta di incontri tematici con i ricercatori da prenotare online, come nel format «Il Linguaggio della Ricerca».
  5. Insieme alle attività con le scuole abbiamo cercato se nel sito si fa menzione dell’opportunità di visitare i laboratori della struttura CNR o se sono presenti iniziative come Laboratori Aperti, Open Day e altre opportunità di visita agli istituti, interpretabili come occasioni di coinvolgimento e apertura degli spazi di lavoro all’esterno. Pochi comunque gli istituti che ne fanno esplicita menzione o che hanno reso pubblica questa opportunità (un 10% del totale circa).
  6. Nell’ambito delle iniziative di contatto con la cittadinanza, abbiamo anche esaminato se nel sito dell’istituto fosse presente un richiamo, anche attraverso una news o un evento, della partecipazione a “La notte dei ricercatori”, iniziativa dedicata alla divulgazione scientifica che da alcuni anni vede coinvolti università e centri di ricerca di tutta Europa nel corso dell’ultimo venerdì di settembre. Il CNR partecipa da molti anni con l’iniziativa “Notte di stelle” che raccoglie e promuove le diverse attività organizzate dagli istituti su tutto il territorio nazionale. Lo abbiamo preso in considerazione come evento esemplificativo dell’impegno degli istituti verso azioni di engagement e divulgazione a livello territoriale. Un terzo circa dei siti web degli istituti ne fa menzione, con una percentuale del 50% tra quelli che fanno parte del dipartimento Terra e Ambiente, a conferma del fatto che le tematiche a carattere ambientale sono certamente uno degli ambiti in cui la richiesta di approfondimento da parte del pubblico è maggiore. Piuttosto consistente anche la percentuale di partecipazione tra gli istituti del Dipartimento di scienze fisiche e tecnologie della materia (DSFTM), dove ci sono gli istituti che si occupano di nanotecnologie.
  7. In pochissimi istituti è invece presente una pagina dedicata alle pubblicazioni divulgative, quelle pubblicazioni cioè pensate per il pubblico dei non-esperti.
  8. Oltre un terzo dei siti web presenta una sezione del sito web dedicata alla Comunicazione, denominata così o in molti altri modi (si veda a tal proposito il contributo di Rita Giuffredi). Si tratta in alcuni casi di una sezione strutturata o in altri di una semplice pagina, che presenta attività divulgative o di outreach organizzate dagli istituti. Colpisce che una sezione esplicitamente dedicata alla comunicazione sia di fatto quasi assente negli istituti del dipartimento di scienze umane e sociali, DSU, alcuni dei quasi si occupano proprio di studiare il rapporto tra scienza e società. Tema di riflessione che cercheremo di approfondire più avanti.
  9. Ultimo elemento è stato la presenza sulla home page del sito di istituto di un rimando ad eventuali profili social media istituzionali; presente sul 40% circa delle home page.

A capire meglio i caratteri della presenza degli istituti nelle piattaforme di social networking è dedicato il prossimo paragrafo.

Quanto sono social gli Istituti del CNR?

Una seconda dimensione che abbiamo analizzato è quella dell’uso dei social network da parte degli istituti. I social media sono infatti uno dei fattori che ha contribuito grandemente a ridisegnare l’ecosistema della comunicazione diventando per molti di noi la fonte primaria di accesso all’informazione. Anche nell’ambito della ricerca scientifica si è diffuso l’uso dei social media per facilitare contatti e scambi, in primis tra quanti lavorano nello stesso ambito disciplinare ma anche per raggiungere la comunità scientifica estesa di tutti i ricercatori. Lo attestano diversi studi, dove gli stessi ricercatori ne valorizzano l’utilità per connettersi con la comunità dei pari, per dialogare con il pubblico o per promuovere sé stessi e il proprio lavoro grazie a piattaforme come Twitter, Facebook o ai social network degli accademici come ResearchGate e Academia.edu. In particolare Twitter è usato per stabilire connessioni con i colleghi, per diffondere le proprie ricerche e per restare aggiornati sulle novità del proprio ambito scientifico. Ad esempio negli ultimi anni si è molto diffusa la pratica della partecipazione a distanza alle conferenze tramite il “live-twitting”, ovvero la pubblicazioni di tweets di aggiornamento, interazione e commento durante la conferenza da parte di chi la sta seguendo in presenza e in remoto.
Nel nostro lavoro di osservazione abbiamo quindi cercato di comprendere quanto le nuove opportunità offerte dai social network siano state colte ad oggi dagli istituti del CNR, prendendo in esame la presenza degli istituti sui diversi social network. Per farlo abbiamo cercato nella home page degli istituti un rimando ai profili social. Quelli maggiormente utilizzati sono risultati essere Facebook, YouTube e Twitter, a seguire LinkedIn, Instagram, ResearchGate e SlideShare. Dei profili Twitter abbiamo anche svolto un monitoraggio dell’attività dell’account di istituto utilizzando la piattaforma Twitter Vigilance, sviluppata dall'Università di Firenze che consente di monitorare account e hashtag. Abbiamo svolto un monitoraggio nel mese di novembre 2019 per analizzare quali fossero i più attivi e quali tipologie di contenuto fossero più diffuse.
In questa prima fase dell’analisi abbiamo voluto semplicemente scattare una istantanea per capire se queste piattaforme di social networking che consentono ai ricercatori di superare l'intermediazione dei divulgatori o dei giornalisti per comunicare la propria ricerca, abbiano trovato effettivamente uno spazio quali strumenti utili nelle pratiche di comunicazione della rete scientifica del CNR.
Va ovviamente sottolineato che il CNR è presente sia su Facebook che su Twitter con i canali istituzionali gestiti dall’Ufficio Stampa centrale dell’ente, che assicura grande visibilità al lavoro di tutti i ricercatori. Sono inoltre presenti canali Twitter e pagine istituzionali Facebook di molti dei Dipartimenti CNR, che dispongono anche di portali web dedicati. Ci sono poi i profili personali dei singoli ricercatori. Qui abbiamo voluto prendere in esame solo le attività realizzate dagli istituti, quali espressione della rete scientifica, per trarre alcune indicazioni sul modo con cui questa comunica sé stessa e percepisce la centralità o meno della comunicazione della ricerca. In relazione a quest’ultimo punto, la successiva analisi presentata da Rita Giuffredi, offre spunti utili a comprendere quale sia il modello di relazione con la società a cui implicitamente rimandano le pratiche comunicative osservate.

Riferimenti:

  • Collins K, Shiffman D, Rock J (2016) How Are Scientists Using Social Media in the Workplace? PLoS ONE 11(10): e0162680. doi:10.1371/journal.pone.0162680)
  • Côté, I. M., & Darling, E. S. (2018). Scientists on Twitter: Preaching to the choir or singing from the rooftops? Facets, 3(1), 682–694. https://doi.org/10.1139/facets-2018-0002)
  • Duffy, B. E., & Pooley, J. D. (2017). “Facebook for Academics”: The Convergence of Self-Branding and Social Media Logic on Academia.edu. Social Media and Society, 3(1). https://doi.org/10.1177/2056305117696523
  • Ke, Qing, Yong-Yeol Ahn, and Cassidy R. Sugimoto. "A systematic identification and analysis of scientists on Twitter." PLoS one 12.4 (2017)

I siti degli Istituti CNR: di cosa si parla quando si parla di comunicazione?

Rita Giuffredi

Rita Giuffredi lavora presso l’Istituto per il Rilevamento Elettromagnetico dell’Ambiente del CNR (IREA-CNR). Fisica di formazione, ha studiato comunicazione della scienza (SISSA, Trieste) e si è addottorata studiando le narrazioni nei discorsi politici sulla ricerca dell’Unione Europea (Uni. Bologna). Come comunicatrice della scienza, ha lavorato in un progetto europeo al CERN (Ginevra) e si occupa attualmente dell’iniziativa europea BlueMed presso IREA-CNR (Milano). I suoi interessi di ricerca sono principalmente le politiche della conoscenza e il rapporto scienza-democrazia.

Una seconda parte dell'analisi ha seguito un approccio più qualitativo e si è concentrata sul sottoinsieme di 24 siti web che dall’analisi risultano avere nel menù una sezione o sottosezione dedicata alle attività di comunicazione/outreach.
Ci interessava infatti, a questo punto, capire non solo se ma anche come si parla di comunicazione, cosa si intende per attività di outreach e come le si collochi concettualmente nella relazione scienza-società.

Ci interessava infatti capire non solo se ma anche come si parla di comunicazione, cosa si intende per attività di outreach e come le si collochi in rapporto al lavoro di ricerca e al ruolo sociale dei ricercatori.

Innanzitutto abbiamo registrato come la sezione dedicata alla comunicazione fosse collocata all'interno del sito (tipicamente rilevabile dalla struttura del menù) e quale fosse la denominazione data. Abbiamo qui avuto modo di fare una prima osservazione interessante: non era possibile limitarci a cercare denominazioni attese come 'comunicazione' o 'outreach', ma era necessario registrare, in senso lato, qualsiasi etichetta di menù che implicasse uno scambio tra l’interno del lavoro di ricerca e l’esterno, poiché il panorama di denominazioni presenti sui siti si presentava come estremamente eterogeneo, segno della molteplicità di visioni e quadri di riferimento richiamati dagli estensori dei siti.
Una volta identificate le sezioni interessanti ai fini della nostra indagine, abbiamo esplorato quali contenuti fossero compresi nelle descrizioni di queste attività, facendo un’analisi per parole chiave ricorrenti nel testo e per significati e posizionamenti concettuali dei discorsi. Come introdotto da Alba L'Astorina, infatti, la comunicazione non è mai un'attività neutrale ma incorpora sempre gli immaginari su cui si fonda: in questo caso, le visioni riguardo la conoscenza scientifica, il ruolo sociale della ricerca e dell'istituzione scientifica e universitaria, il lavoro del ricercatore e più in generale la relazione scienza-società.
Analizzando meglio il linguaggio, si è quindi cercato di estrapolare a quale modelli di comunicazione, tra quelli studiati in letteratura, queste concettualizzazioni potessero rimandare e a quali conseguenti modelli di comunicazione e di rapporto scienza/società le attività di questi istituti in qualche modo si riferiscono, esplicitamente (poche volte) o, più spesso, implicitamente.
L’analisi ha restituito un universo piuttosto variegato, a partire dalle denominazioni scelte: da 'divulgazione' a 'comunicazione' passando per 'outreach', 'public engagement' e 'diffusione della conoscenza' fino al più burocratico 'terza missione', utilizzato nella valutazione del sistema nazionale Università e ricerca (ANVUR), finanche al più classico 'stampa'.
Un ultimo elemento che è stato analizzato riguarda le risorse umane, ovvero se in queste sezioni sono menzionate le persone che si occupano della comunicazione, ad esempio ricercatori coinvolti nelle attività o uno staff scientifico con responsabilità di comunicazione, oppure eventuale personale dedicato ed eventuali referenti. L'obiettivo in questo caso era stimare il grado di consapevolezza riguardo alla ricerca come pratica socialmente costruita, rispetto a visioni di scienza più astratte e disincarnate.
Dalle osservazioni emerge innanzitutto uno sforzo generalizzato per comunicare le proprie attività non strettamente scientifiche sui siti degli Istituti, e per metterne a frutto i risultati tramite una trasmissione ad un pubblico esterno ai laboratori; probabilmente è questo il cambiamento più significativo che osserviamo a questo livello, rispetto alla situazione del 2009.
È tuttavia altrettanto evidente che i quadri di riferimento in cui si posizionano le attività sono molto eterogenei.
Abbiamo identificato alcuni poli attorno a cui si posizionano le parole chiave: si tratta principalmente di 'divulgazione', 'comunicazione', 'public engagement', 'scienza e società' (situati su un ideale asse che va da un’interazione minima con il pubblico ad una massima), 'educazione' (le attività esplicitamente previste per la didattica, incluse le proposte di alternanza scuola-lavoro, di recente rese obbligatorie), 'terza missione' (comprendente le attività situate a cavallo del polo comunicativo/sociale e di quello legato alla valorizzazione economica ed industriale dei risultati) e 'trasferimento tecnologico' (includente le attività che più chiaramente dipingono un quadro applicativo a scopo tecnologico e industriale).

Si tratta chiaramente di inquadramenti concettuali che coinvolgono, per le attività esplorate, settori e attori sociali anche molto lontani, valori di riferimento eterogenei, metodi, strumenti e finalità financo divergenti – si pensi ad esempio ad alcuni temi delicati riguardo al rapporto scienza/società, come l’impatto ambientale o le tecnologie sanitarie: diverso sarà proiettarne la diffusione in un quadro di 'educazione', di 'public engagement' o di 'trasferimento tecnologico'.
Emerge dunque una consapevolezza diffusa dell’importanza di uno scambio verso l’esterno dei laboratori, marcata da una differenziazione di contestualizzazioni, obiettivi e valori di riferimento. Per quanto riguarda le risorse umane, in 16 su 27 casi esaminati sono menzionate le persone che si occupano della comunicazione, in termini di ricercatori coinvolti nelle attività o autori dei pezzi divulgativi, staff scientifico con responsabilità di comunicazione o, in pochi casi, personale dedicato esclusivamente alla comunicazione. Consideriamo tali menzioni come indicatori preliminari di una certa consapevolezza delle pratiche sociali alla base della produzione scientifica: nei siti considerati si è ritenuto infatti non solo di divulgare i contenuti scientifici, in modo il più possibile chiarificato, generalizzato e astratto dal contesto, ma anche di far emergere le individualità dei ricercatori e il loro ruolo nell'istituto e nella comunità scientifica di riferimento.

Prossimi passi della nostra ricerca saranno l’approfondimento delle osservazioni ricavate dai siti, cercando di esplorare più a fondo i combiamenti occorsi nell'approccio alla comunicazione da parte della comunità scientifica nel passato decennio, cercando anche di individuare quali fattori esterni siano stati più rilevanti come fattori di cambiamento: ad esempio le richieste associate alla distribuzione dei finanziamenti (ad esempio quelle legate all'inclusione nei progetti di outreach e dissemination o dell'approccio RRI, inserite nei bandi di enti pubblici e privati), il mutato quadro normativo riguardo la “terza missione” degli Istituti di ricerca (e la conseguente valorizzazione di tali attività nel curriculum dei ricercatori) e le nuove richieste di attività per le scuole (nel contesto italiano in particolare con l'introduzione dell'alternanza scuola/lavoro).

Obiettivo finale è comprendere meglio se il nuovo contesto abbia portato non solo i ricercatori a comunicare di più ma anche a sviluppare attività che vadano più verso la partecipazione del pubblico o addirittura verso una collaborazione del pubblico nelle attività di ricerca. Quali riflessioni tale cambiamento ha generato riguardo il mestiere di ricercatore, il suo ruolo sociale e finanche la natura della conoscenza di tipo scientifico? Ci proponiamo di indagare le dimensioni del cambiamento, necessario alla costruzione condivisa di una società democratica della conoscenza.

Narrazioni in cambiamento: i nuovi luoghi del racconto della ricerca

Alba L'Astorina

La ricerca che abbiamo avviato per capire se e cos’è cambiato nella comunicazione a 10 anni dalle prime indagini al CNR non poteva non partire dal luogo che la rete scientifica riteneva allora – e di fatto lo è ancora oggi – lo strumento centrale per raccontare le proprie attività ad un ampio pubblico: il sito web istituzionale.

I siti web non possono restituire tutta la molteplicità di scambi e relazioni che la rete scientifica intrattiene con la società, né possono dar conto del modo radicale con cui è cambiata la stessa ricerca in quelle istituzioni.

Ma è evidente, da quello che abbiamo sentito stamattina e anche per il tipo di strumento, che i siti web non possono restituire tutta la molteplicità di scambi e relazioni che la rete scientifica intrattiene con la società e con i suoi vari attori: cittadini, mondo dell’educazione, politici, amministratori locali, stakeholder di settore; né possono dar conto del modo radicale con cui è cambiata la stessa ricerca in quelle istituzioni.
L’analisi di Rita ci restituisce invero un universo piuttosto variegato di narrazioni ricostruito a partire dal modo con cui vengono definite da chi cura le pagine del sito le attività rivolte all’esterno: 'comunicazione', 'divulgazione', 'outreach', 'diffusione della conoscenza', 'terza missione'. Una varietà che è certo segno della molteplicità di visioni e quadri di riferimento di chi cura i contenuti e la comunicazione in un sito istituzionale.
Sappiamo però che molte scienziate e scienziati al CNR partecipano ad attività che coinvolgono altri attori e che vanno oltre la semplice comunicazione dei risultati di ricerca: si va da progetti di citizen science a ricerche partecipative, da iniziative di open science fino a progetti ispirati alla RRI e che sperimentano modelli innovativi di educazione scientifica e di public engagement. In alcuni casi, le attività di ricerca si rifanno alla scienza post-normale, che considera necessario coinvolgere una platea più allargata di soggetti nel processo stesso di produzione di conoscenza. Questi diversi modi di fare ricerca spesso non attengono solo a un cambiamento di mezzi e strumenti per raggiungere obiettivi scientifici – scientific business as usual – ma sono parte di un processo culturale e sociale che denota una ridefinizione delle relazioni tra scienza e società e del ruolo dei vari attori in questa dialettica.
Queste attività, che vanno oltre l‘outreach e la terza missione, e che purtuttavia testimoniano un impegno degli scienziati con i tanti attori sociali, ad una prima analisi dei siti web di ricerca, non vengono raccontate. Ci siamo chieste come mai e se non dobbiamo cercare altrove questo racconto?

Questi diversi modi di fare ricerca spesso non attengono solo a un cambiamento di mezzi e strumenti per raggiungere obiettivi scientifici – scientific business as usual - ma sono parte di un processo culturale e sociale che denota una ridefinizione delle relazioni tra scienza e società e del ruolo dei vari attori in questa dialettica.

Le ipotesi sono tante e le stiamo esplorando ancora. Il cambiamento degli strumenti di comunicazione ha certamente avuto un suo ruolo. Sotto la spinta dello sviluppo delle nuove tecnologie digitali e del web, che ha reso più agevole per tutti la creazione di contenuti online e moltiplicato i canali di diffusione, il racconto della ricerca e dei suoi nuovi intrecci con la società si è spostato anche altrove, in luoghi meno istituzionali, dove forse i ricercatori si sentono più liberi di giocare vari ruoli e di interagire con altri soggetti. Ce ne ha parlato Valentina, che ci ha offerto un breve assaggio di come i social vengono usati dai ricercatori per arricchire la narrazione: promuovere la propria ricerca dentro e fuori la comunità scientifica, partecipare al dibattito, interagire su temi attuali in un’arena pubblica. Interessante a questo proposito il caso delle pagine Facebook di alcuni gruppi di ricerca o di alcune sezioni locali di istituti nazionali, che spesso non abbiamo trovato menzionate nei siti istituzionali, nonostante abbiano un notevole numero di scambi sulla rete. Pensando ai risultati delle indagini del 2009, mi viene in mente un dato che ci aveva colpito: l’interesse dei ricercatori intervistati verso una comunicazione locale, in cui noi già allora avevamo intravisto un modello di relazione più diretto e interattivo con i vari attori locali: scuole, imprenditori del territorio, amministratori pubblici o cittadini. Dieci anni dopo, quella comunicazione diventa anche social(e), e si arricchisce di un pubblico di follower che interagisce su Facebook o Twitter.

La comunicazione diventa anche social(e), e si arricchisce di un pubblico di follower che interagisce su Facebook o Twitter.

Ma c’è anche un altro aspetto. Stamattina Fabio Trincardi diceva che “sarebbe necessario comunicare le domande e non solo i problemi di ricerca”. In realtà in molte pratiche di ricerca questo sta avvenendo; i progetti di citizen science o di ricerca collaborativa coinvolgono i cittadini in varie fasi della ricerca e non più solo nella condivisione dei risultati. Tuttavia questi progetti vengono spesso raccontati solo in rapporti tecnici o articoli scientifici; confinati dentro una comunicazione destinata ad una ristretta cerchia di addetti ai lavori, non si riesce però a far emergere la dimensione culturale e sociale del cambiamento nel modo di fare ricerca che pure queste attività rappresentano. Questa considerazione ci riporta alla domanda che abbiamo lanciato organizzando questa giornata: quanto il coinvolgimento dei ricercatori in attività di ricerca partecipata o di open science è motivato dalla piena consapevolezza della necessità di intraprendere nuovi modi di fare ricerca in una società sempre più complessa?

Se vogliamo esplorare i cambiamenti della comunicazione e cogliere la complessità di un’attività che Davies e Horst descrivono come un “sistema culturale e sociale” nel quale si evidenziano i nuovi intrecci che legano la comunità scientifica alla società, dovremo esplorare i nuovi spazi e modi in cui vengono raccontati.

In conclusione, è evidente che se vogliamo esplorare i cambiamenti della comunicazione e cogliere la complessità di un’attività che alcune studiose (Sarah Davies e Maja Horst) descrivono come un “sistema culturale e sociale” nel quale si evidenziano i nuovi intrecci che legano la comunità scientifica alla società, dovremo esplorare i nuovi spazi e modi in cui vengono raccontati.
È quello che intendiamo fare continuando la nostra ricerca, ma anche cominciare a farlo oggi. Per questo nel panel pomeridiano, sposteremo l’attenzione dal luogo della comunicazione istituzionale, il sito web, all’ascolto diretto delle tante storie di dialogo con cittadini, studenti, amministratori pubblici, ricercatori di altre discipline, che molte colleghe e colleghi sperimentano nel loro percorso di ricerca. Qui la domanda non sarà più se e come è cambiata la comunicazione della scienza – quella la diamo per assodata – ma se il coinvolgimento in pratiche di comunicazione e dialogo, pur nella loro diversità, possa aver in qualche modo indotto un cambiamento di prospettiva nei ricercatori, attivato una riflessione o un atteggiamento critico anche verso il proprio modo di fare ricerca.

Riferimenti:

  • The Royal Society. 2006. Survey of factors affecting science communication by scientists and engineers excellence in science. 2006.
  • M.W.Bauer and P. Jensen, The mobilization of scientists for public engagement, in Public Understanding of Science 20(1), 2011.
  • PCST 2012 12th International Public Communication of Science and Technology Conference, Florence, Italy, 18-20 April 2012, Quality, Honesty and Beauty in Science and Technology Communication, PCST 2012; Book of Papers edited by Massimiano Bucchi and Brian Trench, published by Observa Science in Society, 2012, ISBN: 978-88-904514-9-2, www.pcst2012.org , http://www.observa.it/allegati/PCST2012_Book_of_Papers.pdf
  • CNRS 2007. Marcel Jollivet. Les rapports entre sciences et société en question au CNRS : un (faux ?) depart. Natures Sciences Sociétés 2007/4 (Vol. 15)
  • S.R. Davies e M. Horst. 2016. Science Communication – Culture, Identity and Citizenship, Palgrave Macmillan, London.

Comunicare, Partecipare, Collaborare: tra teorie e pratiche di ricerca

Panel di discussione moderato da Alba L'Astorina (CNR-IREA)

Intervengono: Monica Di Fiore (Ufficio ICT; redazione Portale CNR), Nunzia Linzalone (CNR-IFC), Cristina Mangia (CNR-ISAC), Zoe Romano (Wemake), Mariano Bresciani (CNR-IREA), Armida Torreggiani (CNR-ISOF), Alessandra Pugnetti (CNR-ISMAR), Valentina Amorese (Fondazione Cariplo)

Le domande che lanciamo nel panel pomeridiano vanno oltre il tentativo di comprendere com’è cambiata la comunicazione della rete scientifica e aprono al racconto delle tante storie che vedono protagonisti i nostri colleghi insieme a cittadini, studenti, amministratori pubblici, ricercatori di altre discipline nel loro percorso di ricerca.
Vogliamo capire con loro se il coinvolgimento in pratiche di comunicazione e dialogo, pur nella loro diversità, possa aver in qualche modo indotto un cambiamento di prospettiva, attivato una riflessione o un atteggiamento critico anche verso il proprio modo di fare ricerca. E vogliamo farlo in un modo nuovo: per questo ad ogni partecipante abbiamo chiesto di portare, oltre alla propria esperienza, un oggetto personale che ci dica qualcosa in più della storia che vuole condividere con i presenti.

Monica Di Fiore (Ufficio Information and Communication Technology-ICT; redazione Portale CNR), laureata in Scienze Politiche, Ph.D in Sistemi Sociali, Organizzazione e Analisi delle Politiche Pubbliche. Dal 2005 lavora presso il CNR, occupandosi di innovazione, ricerca e innovazione responsabile, etica della scienza e diffusione della conoscenza scientifica.
Si è occupata di innovazione di impresa e di apertura della scienza in un progetto sulla digital library al CNR. Dal 2014 collabora con l’Ufficio Stampa del CNR, come membro di redazione del Portale dell’Ente, al quale ogni dipendente può accedere per pubblicare una news o un evento su attività di ricerca che vedono l’ente in qualità di promotore o partecipante o ospitante. È co-autrice del volume Scienziati in affanno? RRI in teoria e nelle pratiche, edito dal CNR.

A Monica chiediamo, dal suo osservatorio, se le sembra che questa opportunità di creare direttamente i propri contenuti sul web CNR abbia in questi anni contribuito a cambiare i linguaggi e a rendere più consapevoli i ricercatori di cosa significa comunicare.

Il portale istituzionale www.cnr.it è aperto a tutti i ricercatori e dipendenti dell’Ente per chiedere di pubblicare eventi o news sulle loro attività istituzionali e di ricerca. Il form contiene alcune indicazioni che tendono a far comprendere la logica della comunicazione del sito: in primis, chiarire a chi ci si rivolge, quali target e aree tematiche sono coinvolte dalla notizia. La redazione cerca di limitare al minimo gli interventi, salvo le doverose valutazioni di opportunità istituzionale e stilistica. I colleghi dovrebbero chiarire poi che dietro ogni notizia c’è una filiera di attività, un team di ricercatori, un tema oggetto di studio e/o di interesse pubblico, collaborazioni e interessi multi e interdisciplinari. Per il linguaggio, l’uso del portale implica una 'traduzione' dal tecnicismo usato tra esperti a una chiarezza e semplicità adeguati a informare e incuriosire pubblici diversi. Comunicare tramite il portale, quindi, invita a riflettere sulle proprie pratiche di ricerca e può in qualche misura contribuire a cambiarle.

Comunicare tramite il portale invita a riflettere sulle proprie pratiche di ricerca e può in qualche misura contribuire a cambiarle.

Per agevolare il ricercatore o collega, nella richiesta si possono già selezionare le aree dipartimentali e/o i canali mirati sui target: scuole, personale, giornalisti, ricercatori, imprese, cittadini. Ancora, il richiedente deve chiarire se un evento è a ingresso libero o se si tiene in inglese, così da selezionare le persone effettivamente coinvolgibili. Anche le sedi degli eventi sono significative: i ricercatori del Dipartimento Terra Ambiente, ad esempio, hanno una maggior propensione a svolgerli in luoghi informali, facilitando il confronto con soggetti diversi. Mentre i colleghi del Dipartimento DIITET, spesso, si rivolgono alle imprese. Un’altra informazione importante è se il CNR è un partner e non l’organizzatore unico, a rimarcare la frequenza delle nostre collaborazioni con altri attori.

L’oggetto che ho portato è il libro scritto con Alba “Scienziati in affanno?” in cui parliamo di Ricerca e Innovazione Responsabili, più conosciuta con l’acronimo RRI. È un progetto editoriale che parte dalla visione dell'Unione Europea della scienza, attraverso i suoi programmi quadro, e si sofferma sulla relazione che i ricercatori dovrebbero avere con la società, seguendo la strategia di Horizon 2020. In questo lungo excursus abbiamo dato spazio ai temi emergenti riguardo all'innovazione tecno-scientifica, ai rischi e ai benefici connessi, alla crisi della scienza e delle sue pratiche, alla crisi di fiducia nelle istituzioni e nella stessa scienza. Abbiamo voluto anche allargare lo sguardo oltre la visione della RRI, dando spazio ad altri approcci anche fuori dall’accademia, alle loro prospettive originali di riflessione sulla crisi ed abbiamo invitato gli autori a parlarne. Perché ho portato questo libro? Perché prima di tutto rappresenta una esperienza di condivisione e collaborazione molto stimolante. Per me è stato un grande laboratorio, sempre più condiviso, in cui abbiamo raccontato il rapporto che la scienza ha nei confronti dei suoi principali interlocutori: la politica e la società. Le domande di responsabilità, etica e coinvolgimento, poste dalla e alla comunità scientifica, ci hanno permesso di parlare di qualità della ricerca, andando oltre gli standard e le metriche attuali. In questo progetto editoriale, grazie alla collaborazione con tutti gli autori, abbiamo evidenziato anche il ruolo della coproduzione della conoscenza e delle tante pratiche di ricerca, in un incastro che include, non esclude. Tutto questo accadeva in un processo di mobilitazione impegnativa per superare il precariato nel CNR, in cui ero direttamente ed attivamente coinvolta. La lezione che porto con me è che allineare i cambiamenti è impegnativo e a volte molto frustrante ma non impossibile. Questo oggetto mi ricorda che ho fatto la lotta per il superamento del precariato con un libro sulla scienza tra le mani.

Nunzia Linzalone, Istituto di Fisiologia Clinica (IFC), Pisa, biologa marina si occupa da anni di rischi naturali, ambientali e antropici e di partecipazione pubblica nei processi di valutazione di impatto sulla salute e sull’ambiente.

Nella sua presentazione scrive che per lei “comunicare e co-costruire conoscenza con tutti i livelli della società è un’esperienza di democrazia reale, ma il ricercatore deve affrontare aspetti legati al linguaggio e alla partecipazione cui spesso non è abituato.” A Nunzia chiediamo di spiegarci la sua esperienza.

Ho riflettuto su queste cose quando ho coordinato un progetto europeo che mirava a includere la società e condividere la conoscenza per le scelte di policy, nello specifico si trattava di valutare gli impatti sanitari, ambientali e socioeconomici derivanti dal trattamento dei rifiuti urbani con il contributo dei cittadini. Il progetto si è concluso nel dicembre 2014 e quando si è trattato di far conoscere i suoi risultati, ci siamo resi conto che non avevamo tenuto conto degli aspetti di comunicazione. Avevamo scritto report indirizzati a policy maker e stakeholder ma non avevamo mai considerato altri pubblici. Ce lo aveva fatto notare una giornalista che aveva navigato in questo sito web e aveva trovato estremamente interessante quello che avevamo fatto ma non trovava nulla di utilizzabile. Allora ho capito che andava cambiato l’approccio, che il tema della comunicazione andava considerato dai primi momenti di un progetto.

Comunicare può essere un’esperienza di democrazia reale.

Quando mi sono resa conto che dovevamo comunicare meglio mi sono chiesta: come faccio? Sintetizzare un progetto grande con tanti risultati di ricerca in qualcosa di leggibile e semplice mi sembrava un’impresa impossibile. Mi sono guardata intorno e ho scoperto un gruppo di lavoro multimediale nel mio stesso istituto, in cui lavorava un grafico e ho provato a spiegargli di cosa avevo bisogno. Lui si è appassionato al progetto e abbiamo cominciato a collaborare e la collaborazione ha fatto crescere entrambi. Ma anche il tema della partecipazione lo avevamo sottovalutato: a ogni evento avevamo messo in conto di far partecipare 300 persone, e il nostro partner di Agenda 21 nazionale, che ha grande esperienza sulle pratiche di partecipazione, quando lo ha scoperto ci ha detto: sapete cosa vuol dire far partecipare 300 persone? È stato un dramma; siamo partiti con un’idea e abbiamo capito che dovevamo rivedere tutto, si trattava di sviluppare comprensione e fiducia reciproci, costruire competenze e scambio. Penso che per intraprendere questo percorso sia necessario un cambiamento culturale ma è richiesta anche una trasformazione nell’organizzazione delle strutture di ricerca e del modello lavorativo dei gruppi di ricerca verso forme inclusive e transdisciplinari. Io sto tentando di mettere su un laboratorio “trasversale” interno al mio istituto, dove background diversi si confrontano dalle loro prospettive su aspetti di comune interesse per la ricerca.

L’oggetto che ho portato è un libro che mi sono divertita a fare con questo grafico, che nella dedica ha scritto “Alla Nunzia, d’infografica ispirata” Ecco, il percorso di comunicazione ha anche a che fare con il piacere, con il cambiamento, com’è stato trasformare un contenuto ruvido, come quello scientifico e tecnico, in qualcosa di carino e attraente.

Cristina Mangia, ricercatrice in fisica ambientale presso l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del CNR di Lecce. Cura insieme a Marco Cervino una rubrica sulla rivista scientifica Sapere che si chiama Coscienziat@.

Dalla rubrica Coscienziat@ parte la nostra conversazione.

Mi occupo di inquinamento atmosferico e impatto sulla salute e nel tempo l'attività di ricerca si è intersecata con l’interesse più ampio verso il rapporto tra scienza e società. Muovendomi in settori in cui si agitano molti conflitti e in cui si scontrano/confrontano diversi linguaggi, la comunicazione è diventata una parte rilevante del mio lavoro anche di ricerca. La rivista Sapere mi offre la possibilità di alzare lo sguardo dallo schermo del mio pc su cui scorrono numeri, dati e modelli per capire come si inserisce il nostro lavoro nel sistema più ampio del mondo circostante. Insieme a Marco Cervino nella nostra rubrica abbiamo parlato così di ricerca partecipata, di scienza post-normale, di incertezza e anche di sapere responsabile, nella recensione del libro Scienziati in Affanno.

Chi fa ricerca non è mai neutrale e porta sempre una responsabilità, a partire dall’ottica con cui decide di affrontare un tema: alle domande di chi stiamo rispondendo con la nostra ricerca?

Non penso sia possibile sottrarsi alla responsabilità quando si fa ricerca, ma sono convinta che, in particolare, la ricerca nei contesti di ambiente e salute non sia un'attività neutrale. Stamattina il direttore di Dipartimento ci diceva che i ricercatori spesso comunicano le soluzioni, i risultati della ricerca laddove dovrebbero invece condividere le domande da cui sono partiti. E nella discussione seguita all’intervento di Bruna De Marchi ci si interrogava sulla neutralità di chi fa ricerca, cosa cambia se una ricerca la paga la industria o il pubblico? Cambia molto in effetti. Le domande sono importanti perché c’è una soggettività di chi si fa quelle domande; un problema lo si può affrontare da diversi punti di vista, perché nel momento in cui io decido di rispondere alle domande poste dai cittadini, dalla Regione o dal Comune piuttosto che da una multinazionale, mi sto ponendo di fronte ad un problema con un particolare angolo di visuale. Fatto salvo il metodo della ricerca che possiamo condividere, le risposte su quel problema dipenderanno inevitabilmente dalle domande di partenza. Rispetto allo stesso problema domande differenti daranno risultati differenti.

Il mio oggetto è una mappa consegnatami da un movimento di mamme di Ugento, un comune in provincia di Lecce sede di una discarica. Queste donne sono venute preoccupate nel mio studio con la mappa del loro territorio dove erano segnati con una croce i casi di tumore. Chiedevano a noi del CNR un supporto per effettuare una ricerca che potesse spiegare il perché di quella diffusione di casi. La vicenda mi ha fatto pensare molto alle mamme di Love Canal e alle domande che vengono poste dal basso. Domande di conoscenza che spesso restano inevase.

Zoe Romano, ricercatrice indipendente e docente sui temi di innovazione sociale, fabbricazione digitale, open design. Laureata in Filosofia all'Università di Milano, ha lavorato per 10 anni nel settore della comunicazione digitale e tecnologica e in Arduino dal 2013 al 2017. Ha co-fondato uno dei primi Fablab a Milano, Wemake, dove si occupa di ricerca e sviluppo, formazione su e-textiles e gestione di progetti di innovazione sociale digitale finanziati dall'UE.

Nei Fablab la ricerca si sposta nei luoghi non accademici dove è più facile l’incontro con i cittadini, ognuno dei quali pone a volte domande molto personali a cui non trova risposte altrove. Con Zoe affrontiamo il tema della dimensione politica del fare ricerca e delle domande che hanno spazio. Lo facciamo leggendo un passo del loro volume Cure ribelli: la vera innovazione sociale digitale può mettere radici solo quando affronta gli squilibri di potere e le relazioni di forza che modellano il campo sociale, cercando di rendere questi rapporti più giusti, inclusivi e democratici”

Per chi non li conoscesse, i Fablab - parte di un network internazionale - sono laboratori dove si fa ricerca e innovazione practice based, Wemake, lo spazio di Milano in cui lavoro, è uno spazio cui si accede come ad una palestra, con un abbonamento membership; una palestra in cui si condividono delle tecnologie che non puoi permetterti da solo, come stampanti 3d e altre macchine per costruire device e oggetti che servono per risolvere in genere bisogni personali.

I Fablab sono luoghi di ricerca e innovazione non accademici in cui si condividono conoscenze per costruire cittadinanza.

Nel sentire comune, nei media mainstream si pensa che nei Fablab si giochi con la tecnologia, magari senza responsabilità. In un makerspace in realtà avviene tutt’altro. I Fablab sono laboratori di costruzione di partecipazione e di cittadinanza. Nei Fablab entrano i cittadini ma spesso anche i ricercatori, che vi trovano un ambiente più dinamico e interdisciplinare. Noi però non diamo le soluzioni ma condividiamo le conoscenze, gli strumenti per co-costruire la soluzione al problema. E poi cerchiamo di capire se quella soluzione possa diventare scalabile, cioè condivisibile su scala più ampia. L’idea è: se c’è una persona a Milano che ha quel problema, magari ce ne sono altre in Italia che potrebbero beneficiare di questa tecnologia, o forse in Europa o in altri paesi.

A Wemake non entrano solo i cittadini ma spesso anche i ricercatori, che vi trovano un ambiente più dinamico e interdisciplinare.

Il libro cui fa riferimento Alba, è un prodotto di comunicazione delle attività promosse da Wemake nell’ambito di un recente progetto di Digital Social Innovation for Europe supportato dalla Commissione Europea per rafforzare la rete di organizzazioni che propongono l’uso delle tecnologie digitali per un impatto positivo nella società. Nel progetto abbiamo cercato di mappare in Italia tutti quei soggetti – cittadini, gruppi informali, associazioni – che costruiscono soluzioni di cura dal basso, nella consapevolezza che, quando né il pubblico né il privato fornisce soluzioni ai bisogni, le persone si attivano da sole e spesso si rivolgono a spazi simili al nostro. Quello della cura è un ambito politico, perché quando decidi su cosa devi investire per trovare delle soluzioni, ti devi confrontare con lobby, istituzioni, soluzioni che possono messere più o meno accessibili. Ma è anche un ambito in cui le tecnologie possono avere un potenziale emancipatorio enorme. Nella seconda parte del volume abbiamo affrontato il tema della valutazione dell’innovazione digitale sociale e degli indicatori per misurarla. L’openess – open source, hardware, software – dà una dimensione diversa per ragionare sull’impatto di una ricerca, che non è solo economico, di mercato, ma è sociale, e si misura in quanta community hai intorno a quel progetto, quante persone riesci a coinvolgere, quante persone hanno avuto interesse a scaricare il file e la soluzione nelle varie parti del mondo.

Ho portato un oggetto di panno che ho creato nell’ambito di un workshop usando la tecnica dell’infeltrimento ad ago, con lana cardata. Con un ago si creano oggetti che possono essere tridimensionali e li usiamo per ragionare sulle forme del corpo femminile. Questo rappresenta il clitoride, che recentemente è tornato sui libri di scuola superiori in Francia e che prima non veniva disegnato per cui non c’era idea della forma. Parto dalla tradizione dell’artigianato per ragionare sulla scienza, sulla tecnologia e sul corpo delle donne, e qui non solo lo costruiamo ma usiamo una lana conduttiva per farlo diventare un sensore, lo facciamo suonare e gli facciamo registrare dei suoni in cui creare un’installazione in cui il clitoride si anima.

Mariano Bresciani è ricercatore a Milano presso l'Istituto per il Rilevamento Elettromagnetico dell'Ambiente (IREA) del CNR, PhD in Ecologia, si occupa di studiare gli ambienti acquatici tramite le tecniche di telerilevamento.

La conversazione con Mariano non può non partire da una constatazione, che mi viene spontanea, e cioè che lui è, senza che lo volessimo, l’unico uomo del panel. Qualcuno nel pubblico mi fa notare che la “normalità” è esattamente l’opposto ma che se ci fossero stati tutti uomini e una sola donna, nessuno lo avrebbe fatto notare. Sorridiamo un po’ su questo aspetto di genere che sorprende noi stesse, e lui ci confessa che nel suo settore gli capita spesso di essere in minoranza. E che la cosa non lo disturba affatto, anzi la preferisce.

Ho cominciato la mia attività al CNR grazie all’incontro con Eugenio Zilioli che mi ha coinvolto in progetti di educazione ambientale con insegnanti e studenti per la comprensione del telerilevamento, un argomento non facile da comunicare. Le immagini satellitari con cui lavoriamo sembrano infatti di immediata lettura però hanno spesso delle informazioni che non sono immediate e allora devi cercare sempre nuovi modi e nuove parole per spiegare quello che non è evidente. Questo esercizio mi è servito tantissimo e mi ha portato, nei successivi progetti di ricerca, a gestire l’interazione con gli end-user, che spesso negli ambienti acquatici sono i pescatori.

Comunicare agli studenti mi fa ricordare il motivo per cui ho deciso di studiare l’ambiente.

Non è facile capire cosa vorrebbe un pescatore da una tecnologia avanzata come il telerilevamento o spiegare la scienza. E allora per riuscire a spiegare in modo semplice e adeguato alla cultura di chi ascolta, non banalizzando, mi è tornata utile l’esperienza fatta con le scuole. Ma le lezioni con le scuole mi ricordano anche il motivo per cui ho deciso di studiare l’ambiente, mi fa continuare a credere che, grazie alle nostre attività e alla sensibilità degli studenti, un altro mondo sia possibile.

Il mio oggetto è un oggetto che usiamo durante le nostre campagne sui laghi. Si chiama disco di Sechi e serve a misurare la trasparenza delle acque. Ci tengo perché l’ho costruito con mio padre durante il periodo di tesi, cioè circa 20 anni fa. Spiegare a mio papà cosa mi serviva, come costruire questo strumento, è stato tra le prime difficoltà che ho dovuto affrontare nella comunicazione della scienza. Ma lui l’ha capito e l’ha costruito talmente bene che dopo 15 anni continuiamo a usare questo strumento per le nostre campagne di misura.

 

Armida Torreggiani, ricercatrice dell’Istituto di Sintesi Organica e Fotoreattività del CNR di Bologna, chimico e mamma, coordinatore di un progetto nazionale di divulgazione scientifica e di uno europeo. Linguaggio della Ricerca (LdR) si propone di diffondere e consolidare a livello nazionale percorsi formativi basati sull’integrazione strategica tra Scuole, Enti di Ricerca ed organizzazioni no-profit, sfruttando le potenzialità di diffusione della rete CNR nel territorio.

Anni fa l’educazione scientifica per un ricercatore era considerata una cosa non importante ma ora l’interesse è cresciuto. Nella sua presentazione scrive: "Anche io i primi tempi andavo nelle scuole a parlare del mio lavoro a tempo perso; ora è diventata un’attività importante e predominante della mia ricerca al punto che coordino progetti nazionali ed europei sulla divulgazione scientifica. Com’è che sono finita a fare queste cose?" La nostra conversazione prende l'avvio da questa domanda.

Sono partita da una sensibilità personale, aumentata quando sono nati i miei figli ma di certo già esistente. Una sensibilità che mi portava a dire: la scienza è così bella e non viene capita bene; anche a scuola non viene insegnata per la sua bellezza. E la bellezza della scienza sta nel fatto di porsi delle domande, avere un metodo, programmare, collaborare. Grazie alla mia esperienza di mamma-ricercatrice, e prima di insegnante, ho pensato che fosse giusto fare qualcosa con e per la scuola, proponendo iniziative dove i giovani potessero capire meglio come la scienza può aiutarci a vivere meglio la nostra vita quotidiana e affrontare i problemi. Allora con una collega di Bologna ci siamo date un obiettivo di spiegare nelle classi la nostra ricerca, a cosa serve e come la facciamo. Ed è nato così nel 2003 il progetto di divulgazione scientifica “Il Linguaggio della Ricerca (LdR)” rivolto a giovani studenti tra 10 e 19 anni; un format in cui raccontiamo a scuola come si fa ricerca, portiamo gli studenti in un laboratorio o in un’azienda, e parliamo delle attività che ruotano intorno alla scienza. Poi gli chiediamo di raccontare a loro volta, con i loro linguaggi, l’esperienza fatta insieme, cercando un modo accattivante, producendo video, poster, pagine web, ecc.

10 anni fa l’educazione scientifica era considerata una cosa che non rientrava nei compiti di un ricercatore; io stessa andavo nelle scuole a tempo perso. Ora è diventata un’attività importante e predominante della mia attività.

Questi prodotti poi vengono esposti alla fine di ogni anno nel corso di un Convegno all’Area della Ricerca del CNR di Bologna, dove vengono circa 500 ragazzi dalle scuole medie e superiori. In questo modo loro stessi diventano i divulgatori, moltiplicando le conoscenze e diffondendole nella società. Nel 2016 lo stesso progetto è stato finanziato dal Ministero della Pubblica Istruzione come progetto nazionale. Al momento sono coinvolti 25 istituti CNR Italia di 10 Regioni in tutta Italia; anche fare squadra è servito moltissimo, aumentare la comunicazione anche tra ricercatori che fanno divulgazione con le scuole è importante. Guardare il mondo con i giovani è un'esperienza straordinaria: stupore, curiosità, entusiasmo, allegria, rinnovato interesse, ma queste sono solo una parte delle sensazioni che si provano. Non ho studiato i metodi e vorrei imparare di più sui modelli educativi; con Alba si parlava del fatto che spesso fai le cose con intuito, perché ti sembrano giuste, ma lei mi diceva che esiste una vasta letteratura sul tema dell’educazione scientifica e sui suoi metodi che la maggior parte dei ricercatori non conosce, e sarebbe bello approfondirla.

Quando Alba mi ha chiesto di portare un oggetto sono andata in crisi, ho pensato che avrei preferito fare una presentazione powerpoint. Poi però ho pensato che avevo un oggetto significativo da mostrare, e ho portato uno dei prodotti premiati quest’anno dai ragazzi, perché dà un’idea dell’effetto di quello che facciamo, magari anche sbagliando, con loro. È una poesia scritta da alcuni ragazzine di 11 anni di una scuola media dopo aver partecipato ad una visita al CNR di un paio di giorni. Ne leggo solo alcuni passaggi che fanno così: “al CNR per due giorni siamo andati e abbiamo osservato il mestiere di ricercatori e scienziati. Con guanti e camice bianco sono vestiti e mentre li metto anche io, i miei compagni mi guardano allibiti. Appunti su appunti, esperimenti su esperimenti, che col passare del tempo mi paiono divertenti. Sono dei bravi osservatori, peccato non gli diano degli ori. Il loro lavoro è fare esperimenti, ogni tanto sono noiosi ma anche divertenti. Questa visita è ormai terminata e vorrei ripetere un’altra volta questa esperienza fatata. Ve lo dico con una poesia, con la mia fantasia: grazie per tutto, questa sarà un’esperienza che non butto.” Ecco, poesie come questa ti ripagano del tanto lavoro che richiede lavorare con i ragazzi

Alessandra Pugnetti: biologa ed ecologa che lavora a Venezia all’Istituto di Scienze Marine (ISMAR) del CNR. È stata coordinatrice della Rete italiana di Ricerca Ecologica a Lungo Termine per la quale ha ideato e realizzato l’iniziativa di comunicazione informale della scienza “Cammini LTER”.

Ad Alessandra chiediamo cosa l’ha spinta ad uscire dalla sua zona di comfort per andare a parlare di ecologia in giro per l’Italia, e che impatto ha avuto sulla sua vita professionale e personale questa esperienza.

Intanto contestualizzerei i Cammini: sono un’iniziativa di comunicazione informale della scienza della rete di ricerca ecologica a lungo termine LTER Italia, distribuita sul territorio nazionale e costituita da un’ottantina di siti rappresentativi di ambienti di acqua dolce, di transizione, marini, terrestri, in cui studiosi di varie istituzioni, tra cui il CNR che coordina la rete, conducono ricerche ecologiche che permettono di seguire lo stato di salute di questi ambienti nell’arco di decenni. I Cammini sono nati come un modo per far sapere a un pubblico ampio cosa fa LTER Italia, cosa sono i siti, perché è importante la ricerca ecologica e cosa significa mantenere le osservazioni sul lungo termine. Li abbiamo organizzati mettendo in gioco i nostri corpi, cioè evitando le modalità più classiche di comunicazione, creando invece percorsi che collegassero più siti LTER, andando prevalentemente a piedi o in bicicletta... Ci siamo ispirati a una tradizione antica che vede nel “camminare” un modo privilegiato non solo per conoscere il paesaggio ma per accedere a se stessi e agli altri e alla natura attraverso l’apertura di sensi e mente che avviene quando si cammina, superando barriere di cui spesso non siamo consapevoli. È un’esperienza che, seppur nata con una buona dose di incoscienza, dura da cinque anni, durante i quali abbiamo organizzato 13 cammini che hanno collegato una ventina di siti della rete, coinvolto decine di ricercatori e moltissimi attori diversi che ci hanno accompagnati lungo questa strada.

L’idea di partenza di molti ricercatori era di andare a diffondere la conoscenza nei territori, ma in realtà piano piano ci siamo accorti che i territori erano pieni di conoscenza e l’esperienza stava generando un cambiamento in noi ricercatori.

Si parla tanto di problemi ambientali ma la sensazione, facendo ricerca, è che abbiamo perso quasi completamente il senso di intimità con la natura, la nostra gratitudine verso la natura, la nostra interdipendenza da e con essa e tutti gli esseri viventi. Camminando in mezzo alla natura si recupera questo legame, che è anche affettivo, e che dovrebbe essere il punto di partenza da cui affrontare qualsiasi altro problema e svolgere la ricerca stessa. C’è qualcuno che dice che se fossimo consapevoli di quanto siamo interconnessi, avremmo molta più paura di odiare che di morire. Venendo al tema della comunicazione e cosa ci ha insegnato: al di là delle tecniche più o meno riuscite efficaci o efficienti che abbiamo sperimentato, cercare di comunicare con una modalità diversa, informale, diretta, di raccontare le proprie attività stando fuori dalla zona di comfort cui siamo abituati, ci ha cambiato profondamente facendoci capire in maniera concreta le problematiche che si incontrano nella relazione con gli altri. Camminando con le persone, facendo delle tappe insieme, si superano molte barriere.

Comunicare fuori dalla zona di comfort cui siamo abituati induce un cambio di prospettiva e di percezione di sé, degli altri e del proprio lavoro di ricerca.

Questo genera una visione molto diversa del mondo. In me, in particolare, questa esperienza ha generato un cambio di prospettiva e di percezione del mio lavoro, premettendomi di dare sempre più spazio al mondo interiore, accogliendo gli aspetti sensoriali ed emotivi oltre a quelli cognitivi. C’è da dire, però, che ognuno ha avuto la sua esperienza. Qualcuno ha imparato a comunicare in maniera più spontanea, riuscendo a capire come rendere semplice argomenti scientifici complessi; qualcun altro è rimasto fermo nella sua posizione e continua a “trasmettere” conoscenza, più che ad accogliere e condividere.A me personalmente ha portato a cambiare la mia domanda di ricerca ed esistenziale, che è diventata, citando Lynton Caldwell, quella che dovrebbe costituire il cuore di ogni azione che voglia produrre un cambiamento: “Che tipo di creature vogliamo diventare?”

 

Valentina Amorese, laureata in biotecnologie agrarie, dottorato in Sociologia presso la London School of Economics con una ricerca sui temi del rapporto tra scienza e società. Attualmente è Program Officer della Fondazione Cariplo, che destina un budget consistente alle attività di ricerca scientifica in Lombardia. Con Valentina abbiamo collaborato nel periodo in cui Cariplo era partner del più grande progetto europeo per la diffusione dell’approccio della ricerca e innovazione responsabile (RRI) in Europa, RRITools e abbiamo organizzato qui al CNR di Milano le giornate RRI: Sfide e opportunità per il mondo della ricerca da cui ha preso poi origine il volume "Scienziati in Affanno?"

La Cariplo è una delle poche istituzioni private in Italia che valuta importanti per accedere ad un finanziamento non solo la proposta di ricerca ma anche la comunicazione e l’approccio RRI, e immaginiamo che Valentina abbia contribuito a promuovere in Fondazione questa sensibilità verso il rapporto scienza e società.

Il mio approdo in Fondazione Cariplo è frutto di un percorso iniziato anni prima. Sono sempre stata curiosa di capire perché alcune persone si affidano completamente alla scienza mentre per altre le cosiddette verità scientifiche sono fonte di dubbi e perplessità più che sicurezza. Io, che ho trovato nella scienza tante risposte alle mie domande, non sono riuscita a trovare lì la risposta a questa domanda e allora ho iniziato a cercare altrove. In Fondazione ho avuto l’occasione di partecipare al progetto RRITools di cui parlava Alba e che stava progettando un Toolkit per i ricercatori e quindi le giornate al CNR ci sono servite anche per sperimentare questi strumenti che avevamo ideato presso una platea di ricercatori. In Fondazione abbiamo capito che per introdurre i temi della comunicazione nella realtà di ricerca, questi dovevano entrare fin dai primi momenti nella scrittura stessa del progetto. E così dal 2015 in tutti i bandi abbiamo inserito una richiesta specifica ai ricercatori, di fare cioè un piano di comunicazione dettagliato che andasse oltre il trasferimento di risultati e diventasse un modo per aprire un dialogo con la società.

Nei bandi Cariplo i ricercatori devono presentare un piano di comunicazione dettagliato che vada oltre il trasferimento di risultati e si faccia dialogo con la società. Non è cosa a cui sono preparati ma può aiutarli a vedere oltre il proprio punto di vista, a volte limitato e ristretto.

Non è stato facile e sapevamo che era una sfida. E i primi progetti che arrivavano avevano dei piani di comunicazione molto classici; allora abbiamo capito che i ricercatori andavano formati e abbiamo organizzato, con la collaborazione del Museo Scienza e Tecnologia di Milano, un corso ai vincitori di bando, per aiutarli a rispondere a quel piano di comunicazione. La prospettiva era di diffondere una cultura della comunicazione che potesse anche tramandarsi da ricercatore a ricercatore. Ma per evitare che il tema della comunicazione e della RRI fosse sempre considerato a valle del processo di ricerca, dopo alcuni anni con alcuni colleghi siamo riusciti a far aprire una linea di ricerca dedicata alle scienze sociali all’interno delle quali il tema del rafforzamento della relazione tra scienza e società potesse essere finanziato proprio come tema di ricerca. È stata una sfida ampiamente vinta perché hanno partecipato soggetti molto diversi in collaborazione tra loro e sono arrivate molte domande, cosa che non ci aspettavamo.

Il mio oggetto è il pesciolino Dory del film di animazione omonimo e l’ho scelto perché questo personaggio mi fa pensare alle aspettative che noi in Fondazione abbiamo verso i ricercatori che partecipano ai nostri bandi. Da un lato vorremmo che comunicassero con il loro pubblico pensando di guardare al loro problema di ricerca come se fosse la prima volta. Dory è un pesciolino che si dimentica sempre tutto, ogni 5 minuti si riprogramma e dice “Ciao io sono Dory”, e guarda al problema al mondo e a se stessa come fosse la prima volta. La seconda cosa che vorremmo dai ricercatori che finanziamo è di mettersi in contatto con persone diverse, che guardano al loro problema da un’ottica diversa, perché questo può essere generativo per la stessa ricerca. Andando un po’ oltre il punto di vista della sola ricerca che a volte può essere un po’ troppo limitato e ristretto.

Considerazioni finali

Con Adriana Valente

Adriana Valente, giurista e sociologa, lavora presso l'Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali (IRPPS) del CNR. È responsabile scientifica del gruppo di ricerca Studi Sociali sulla Scienza, Educazione, Comunicazione (COMESE), la cui principale finalità è la comprensione e la valorizzazione delle relazioni tra scienza, politica e società. Tra i suoi interessi di ricerca: relazione tra evidenze e processi decisionali; educazione, didattica della scienza e partecipazione al dibattito scientifico; comunicazione della scienza e comunità scientifica; rappresentazioni delle migrazioni internazionali e rappresentazioni dei migranti nei libri di testo e nei media.

Grazie, Alba, per aver organizzato questo incontro così stimolante, come si è visto dal dibattito e dagli interventi feraci.
Molte parole chiave mi hanno colpito e mi sono piaciute: cammini, raccontare le domande, paradigmi, aperture disciplinari, cambiamento culturale, trasformazione, transdisciplinarietà, interdipendenza, ascolto.

Cammini, raccontare le domande, paradigmi, aperture disciplinari, cambiamento culturale, trasformazione, transdisciplinarietà, interdipendenza, ascolto: queste le parole ricorrenti in questa giornata.

Si possono raggruppare secondo due prospettive: la prima prospettiva è quella dell’apertura interdisciplinare. Il discorso dell’apertura è stato presente in tutti gli interventi, in cui pure sono stati evidenziati i tanti problemi connessi. Traspariva un elemento portante, che è quello della cura di ogni singolo individuo e dell’ambiente. Vedere l’altro. L’interesse per l’altro come input di ricerca. Richiamo a questo proposito l’indagine del CNR condotta da Alba L’Astorina alcuni anni fa, in cui si chiedeva ai ricercatori con chi si intrattenevano stabili relazioni di comunicazione e con chi si sarebbe invece voluto intensificare la comunicazione. I risultati evidenziavano uno squilibrio: la scuola era il principale attore sociale con cui si comunicava, ma non il più ambito: l’aspirazione a comunicare era indirizzata ai politici. Quale visione del mondo e degli equilibri di potere è sottesa in questa risposta? Quali vie si ritengono prioritarie per innescare il cambiamento? Quale interesse si cela per l’altro che si incontra sul cammino? L’intenzione comunicativa è importante, perché ci dà il senso di come ci rapportiamo con l’altro. L’altro chi è? È il cittadino, anche. Ma dobbiamo addentrarci nella questione e cercare di capire meglio. Se ricordiamo quanto indicato da Silvio Funtowicz, che in una riflessione sulle interfacce tra scienza e politica rilevava che i vari ambiti disciplinari costituiscono diversi stakeholder, ci appare chiaro che quando parliamo di molti attori non parliamo solo di persone ma anche di diverse entità e di diverse discipline. Parliamo di comunicazione e di attori da coinvolgere e parliamo anche di paradigmi disciplinari con cui confrontarci. Ritorna centrale il discorso su specializzazioni e transdisciplinarietà. Penso a quanto diceva Evelyn Fox Keller. Lei notava come negli anni '70, sebbene imperversasse la metafora dell’informazione, ogni scienziato restava abbarbicato al proprio paradigma epistemologico. Ci troviamo ancora a confrontarci con questi problemi e potremmo dire che la capacità di confronto tra le visioni del mondo inglobate nei diversi paradigmi sarebbe già di per sé una rivoluzione. Potremmo estendere questa contraddizione oltre i laboratori scientifici, nelle pratiche di chi opera a diverso titolo nei gangli di connessione tra scienza e società e nel grande sforzo cognitivo, emotivo e linguistico connesso.
In questa giornata si è respirata permeabilità e desiderio di confronto tra esperienze, modelli e visioni del mondo. Questo atteggiamento ci consente di essere aperti a immaginare e a cogliere i futuri possibili dei processi di educazione e comunicazione nel loro divenire.

In questa giornata si è respirata permeabilità e desiderio di confronto tra esperienze, modelli e visioni del mondo. Questo atteggiamento ci fa essere aperti a immaginare e a cogliere i futuri possibili dei processi di educazione e comunicazione nel loro divenire.

L'altra prospettiva a cui si riferiscono le parole chiave circolate oggi si ricollega maggiormente a riflessioni di filosofia politica. Alcune hanno sottolineato la questione etica, il discorso dell’innovazione digitale rispetto agli equilibri di potere, l’esigenza di conoscere se stessi, l’inclusività, la democrazia e la partecipazione, la fiducia. Parlare di partecipazione e dei vari modelli di empowerment vuol dire proporre un metodo di azione e non scegliere una direzione di azione, come nel caso invece dell’adozione del principio di precauzione. Dunque, quando parliamo di partecipazione, non parliamo di un risultato da conseguire, per quanto difficile, ma di un metodo, che può portare a qualunque risultato. Quale risultato noi ci aspettiamo? Siamo disposti ad accogliere qualsiasi risultato scaturisca da un approccio partecipato? Non è così facile rispondere. Ad esempio, a proposito di Ricerca e Innovazione Responsabile (RRI), è stato rilevato che questa potrebbe anche giungere a rafforzare un modello neo liberista. In alcuni casi, nel promuovere processi di co-costruzione di conoscenza, può risultare indirettamente rafforzato il fronte “mercato” rispetto al fronte “governo” come strumento di policy. Il bene comune (salute, educazione, ambiente) potrebbe allora rischiare di essere la semplice risultanza dell’interazione competitiva tra diverse parti. Occorre domandarci quale paradigma etico vogliamo e siamo in grado di portare avanti. L’indeterminatezza del possibile esito finale può essere mitigata dall’ancorare i processi partecipati e “responsabili” ai valori sociali, ai diritti. Questa soluzione, tuttavia, ci pone ancora di fronte a problemi di non facile soluzione.

Nel 2014 ricercatori del Brasile e della Gran Bretagna si sono riuniti all’Università di Campinas per partecipare a un seminario su “Responsible Innovation and the Governance of Socially Controversial Technologies”. Le prospettive cross-culturali hanno mostrato opportunità, ma anche paradossi. Una delle accuse volte alla RRI, era il fatto di essere frutto esclusivamente del pensiero occidentale, quindi statunitense ed europeo. Questioni rilevanti sia dal punto di vista tecnologico e ambientale (ad esempio: atteggiamento verso le biomasse) che socio-cultrale (ad esempio: approccio di genere contrapposto a una cultura paternalista più diffusa in certi paesi) pongono dilemmi ed evidenziano contraddizioni non facilmente risolvibili.
Quadri di riferimento "sottili" possono mascherare, sotto le sembianze dell'universalismo, narrazioni comuni a attori sociali di specifici contesti geografici e culturali. La proiezione in chiave planetaria e universalistica ci costringe a spostare sempre oltre la riflessione sulle relazioni di potere.

Conclusioni della giornata e futuri sviluppi

Ringraziamo i partecipanti al panel per le loro esperienze, e Adriana, che con queste note critiche ci ricorda che la partecipazione, come già la comunicazione e la collaborazione, per richiamare le tre parole chiave di questa Giornata, non ha un senso univoco ma è un metodo che può portare a risultati diversi a seconda dell’obiettivo per cui la promuoviamo e del paradigma etico entro cui ci muoviamo.
Esattamente come per la ricerca e l’innovazione, se scolleghiamo la partecipazione dai valori e dai diritti, rischiamo – a volte in maniera inconsapevole - di legittimare un sistema di potere squilibrato, non equo e poco inclusivo.
L’invito quindi è a riflettere, quando si parla di comunicazione, oltre che sui linguaggi e sui canali più appropriati, a quale tipo di società stiamo immaginando con le nostre pratiche di ricerca e di comunicazione.
Chiudiamo allora qui questa giornata, sapendo che la riflessione non può che andare avanti. Come da tradizione, riportiamo anche alcuni stralci del dibattito che ha accompagnato gli interventi dei vari partecipanti, perché a volte dal pubblico vengono gli spunti più interessanti.

Grazie a tutte e a tutti! Alla prossima!

Alba L'Astorina, Rita Giuffredi, Valentina Grasso

Spunti dal dibattito (con il) pubblico

# affidabilità di comunicazione, numeri, saperi, scienziati:

Anche quando comunichiamo i dati, dobbiamo fare attenzione. Io ultimamente ho sperimentato un sistema per fornire a chi mi ascolta un metro per valutare il grado di affidabilità dei dati che cito. Utilizzo il sistema dei tre colori del semaforo: verde per i dati di cui ci si può fidare, perché è relativo ad un tema che conosco molto bene, che è parte della mia expertise; giallo, se parlo di un tema di cui ne so abbastanza ma che non rientra propriamente nella mia competenza; rosso per avvertire che sto parlando di un tema di cui non sono esperto e che quindi va preso come un parere, non diverso da quello che potrebbe esprimere un’altra persona non esperta. È solo un modo per far capire che anche il più bravo ricercatore, quando parla di temi che non rientrano nei suoi ambiti di competenza non è detto che ne sappia di più del comune cittadino.

Fabio Trincardi (Direttore Dipartimento terra Ambiente CNR)

Il fatto che non tutti gli esperti abbiano la stessa opinione è una delle cose difficili da digerire. Anche perché spesso veniamo dalle discipline “dure”, in cui c’è sempre una risposta “esatta”. Ma se il problema riguarda temi come l'inquinamento, le scelte energetiche, i numeri e le risposte “esatte” non è detto che ci siano o siano di un solo tipo.

Bruna De Marchi (SVT-UiB)

Come si possono porre gli scienziati che lavorano a fianco dei cittadini e che magari si trovano a sostenere tesi diverse da quelle sostenute da colleghi del loro stesso istituto che hanno lavorato su quel tema o che sono stati chiamati da altri a indagare su quello stesso ambito?

Giuliana Rubbia (INGV)

Spesso le persone non hanno sfiducia verso gli scienziati ma verso le istituzioni; in molti casi la gente non ha fiducia nel MODO in cui gli scienziati formulano i problemi, che è ancora un’altra cosa.

Alba L’Astorina (CNR-IREA)

Una cosa è il dubbio all'interno della comunità scientifica, che fa parte del metodo della scienza. Il problema è l’illusione che si debba procedere ad una decisione solo quando c’è una totale certezza da parte di tutta la comunità scientifica. Se io uso a sostegno della mia decisione di non agire quanto dice la percentuale di scienziati che non è d’accordo, e che ha diritto di non essere d’accordo, allora faccio un uso politico del dubbio della scienza.

Valentina Grasso (CNR-IBE, Consorzio LaMMA)

La sfiducia nella scienza non riguarda la scienza di base ma soprattutto quella applicata

Antonio Finizio (Università Milano Bicocca)

Quando interagiscono con i cittadini i ricercatori dovrebbero tenere presente che hanno un mandato di fiducia enorme, che a volte non viene usato bene; eppure non sono tante le persone che hanno la fiducia di cui godono i ricercatori.

Sara Calcagnini (Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano

In molte occasioni il paziente ne sa abbastanza della sua situazione e della terapia che dovrà fare e in alcuni casi, come le malattie rare, ne sa anche più del medico. In inglese non si parla neanche più di paziente, ma di Individual Active person, a sottolinearne il ruolo attivo nella costruzione di conoscenza.

Maurizio Portaluri, medico

# Sulla necessità di una comunicazione (e di una ricerca) transdisciplinare

Sul dialogo tra le discipline c’è una sensibilità crescente. L’Università di Milano organizza una Summer School rivolta a studenti, ricercatori o professionisti che vengono da un background scientifico-tecnico e propone una riflessione etica e filosofica su tema del cibo e della sua produzione, consumo, distribuzione; vi partecipano persone di diversa estrazione e formazione, e funziona, si crea un dialogo e anche un pensiero critico che è molto importante.

Paola Fossati (Summer School sui temi dell’etica nella scienza “Cibo: la vita condivisa. Oltre il piatto”, Università di Milano)

Come studente universitario io vedo che i miei compagni non sanno nulla dei temi di cui si è parlato oggi; spesso non sanno neanche cosa vuol dire fare ricerca, ne hanno una idea astratta, ancor meno cosa significa comunicare. Per questo, nel 2013 alcuni studenti hanno fondato un’associazione, il Centro per le Eccellenze di Studi Transdisciplinari (CEST), per potenziare il rapporto tra mondo accademico e società civile. Lo facciamo attraverso un modello basato sulla stretta interdipendenza tra i vari campi di ricerca, senza nessuna esclusione disciplinare, perché oggi la ricerca non può che essere transdisciplinare. Abbiamo diverse iniziative in cui coinvolgiamo studenti triennali in attività che mirano a farli entrare precocemente in contatto con il mondo della ricerca per capire cosa vuol dire oggi fare ricerca: dal cercare i fondi tramite i bandi, a scrivere in riviste scientifiche, e a comunicare la ricerca, che è la parte più difficile perché non ci preparano a farlo.

Andrea Del Zotto (studente Università di Torino, CEST)

Ho dedicato tanti anni a costruire il mio curriculum scientifico e non credo di dovermi costruirmi un ulteriore competenza di comunicatore. Ho bisogno però di collaborare con altre figure professionali, per rendere più accessibili le mie stesse ricerche.

Nunzia Linzalone (CNR-IFC)

# Sulle caratteristiche della comunicazione della ricerca (attuale e futura)

Mi ha colpito l’uso della parola divertirsi, almeno in tre occasioni: l’ha pronunciata Mariano, quando ha parlato del piacere di costruire uno strumento insieme al padre; l’ha usata Armida a proposito della relazione con i suoi studenti, e Zoe nel Fablab, in un contesto e senso molto diversi. E poi si è parlato dei momenti informali e della loro importanza. Sono parole che danno un’immagine diversa da quella classica che mostra il ricercatore chiuso da solo nel proprio laboratorio.

Bruna De Marchi (SVT-UiB)

È vero che ricercatori devono raccontare la scienza in prima persona, ma è fondamentale che ci sia una collaborazione tra il mondo della ricerca e quello dei professionisti della comunicazione.

Giulia Alice Fornaro (Università di Torino, redazione FRiDA, il Forum della Ricerca di Ateneo)

Penso che la comunicazione della scienza sia a volte un po’ omologata, si parla soprattutto degli articoli pubblicati su Science e Nature quando c’è molto altro da raccontare. La mia impressione sul coinvolgimento dei vari attori e sulla partecipazione alla ricerca è che molto dipenda dai diversi contesti disciplinari. Nell’ambito della fisica, da cui provengo, siamo spesso molto lontani dalle riflessioni che ho sentito oggi. In generale non c’è molta consapevolezza dei paradigmi taciti che stanno alla base del lavoro quotidiano di ricerca, della responsabilità sociale. Questo è uno dei motivi che mi ha condotto ad avvicinarmi alle scienze sociali.

Valentina Tudisca (CNR-IRPPS)

Uno dei nodi fondamentali quando si parla di interazione tra diversi attori è quello di avere un linguaggio comune. Non è scontato che i termini rimandino alle stesse rappresentazioni. L’altro nodo centrale, al fine di avere un vero coinvolgimento, è trovare un punto di incontro tra i diversi punti di vista e motivazioni con cui ci approcciamo allo stesso tema. Occorre spesso un preliminare lavoro culturale per superare i pregiudizi che ci allontanano e possono inficiare una vera interazione.

Claudia Pennacchiotti (CNR-IRPPS)

# Social media

Sarebbe interessante sapere chi è che visita i siti web istituzionali, pubblico o giornalisti che poi fanno da mediatori con il pubblico?

Monica Zoppè (CNR-IFC)

Esiste una social media policy per i diversi istituti presenti sui social? Una politica editoriale dove è indicato chi pubblica i contenuti, con che modalità, con che tempistica; oppure ogni ricercatore può essere libero di gestirli come crede? Li gestisce chi è incaricato di farlo o chi è più propenso al mezzo?

Cinzia Colombo (Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri)

Il mondo – non solo quello della ricerca – funziona nell’incertezza e nell'imprecisione eppure non sappiamo comunicare l’incertezza e la complessità. Per farlo, c’è bisogno di un cambiamento culturale.

Alessandra Pugnetti (CNR-ISMAR)

Nel mondo medico, i social media sono molto usati per l’aggiornamento professionale, ma la comunicazione fa parte del rapporto terapeutico tra un dottore ed un paziente e non può essere delegata ad altri.

Maurizio Portaluri, medico

Se comunicare significa mettere in comune, ci si potrebbe chiedere se sui social media c’è possibilità di una vera e propria interazione.

Antonio Finizio (Università Milano Bicocca)

Esistono oggi spazi di interazione online. Le persone commentano e interagiscono sui social, fanno domande, fanno critiche talvolta, fanno rete. Una pagina istituzionale diventa talvolta lo spazio di interazione tra gli stessi utenti: capita che alle critiche o alle domande postate da un utente su una pagina istituzionale, sia un altro utente a rispondere, a chiarire, a interagire.

Valentina Grasso (CNR-IBE, Consorzio LaMMA)

# Sulla necessità di una formazione ricercatori

Dovremmo riflettere sulla formazione dei ricercatori nel campo della comunicazione della scienza, che all’Università non viene fatta, perciò è da lì che bisogna cominciare.

Giovanna Pacini (Università di Firenze Sportello della scienza e della sostenibilità di Firenze)

Noi come Museo siamo coinvolti in progetti di formazione dei ricercatori nel dialogo con il pubblico. Il Museo è il luogo dove avviene l’incontro con il pubblico: i primi formatori sono proprio i nostri visitatori e l’esperienza delle attività di comunicazione è la prima formazione per loro. Una cosa che imparano i ricercatori quando parlano è a non focalizzarsi sui risultati della ricerca; quello che sembra la cosa più importante per la comunità scientifica, non lo è necessariamente per le altre persone; i visitatori di un museo, ad esempio, vogliono capire chi sono, cosa fanno, cosa interessa o non interessa un ricercatore, loro lo vedono prima di tutto come persona.

Sara Calcagnini (Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano)

Possiamo considerare gli studenti come un pubblico della scienza; e quando si lavora con degli studenti stiamo facendo science education o science communication? I ragazzi oltre a capire come funziona la ricerca e qual è il lavoro del ricercatore, hanno consapevolezza di come la scienza può condizionare la società

Pamela Pergolini (giornalista, Ufficio stampa università di Roma)

Forse c’è bisogno che tutto il personale capisca la rilevanza della comunicazione e che si faccia qualcosa. Che si facciano dei corsi di formazione, dei laboratori pratici con giornalisti. Non dico che il ricercatore debba diventare giornalista, ma che si renda conto delle necessità degli altri.

Cristina Mangia (CNR-ISAC)

Materiali dalla giornata e risorse

Scatti della giornata:

Contatti

  • Alba L'Astorina: lastorina.a[at]irea.cnr.it
  • Rita Giuffredi: giuffredi.r[at]irea.cnr.it
  • Valentina Grasso: valentina.grasso[at]ibe.cnr.it

Credits:

  • acquisizione ed elaborazione testi: Alba L'Astorina, Rita Giuffredi e Valentina Grasso
  • ideazione e realizzazione atti: Rita Giuffredi
  • fotografie a cura di: Amelia De Lazzari (foto "Dory": Kuba Bożanowski su Wikipedia; foto Monica Di Fiore e Alessandra Pugnetti di Tommaso Correale Santa Croce, Fondazione Giannno Bassetti)

Per qualsiasi estratto preso da questa pagina, raccomandiamo di citare così la fonte:
Alba L’Astorina, Rita Giuffredi e Valentina Grasso (a cura di). 2020. “Comunicare Partecipare Collaborare. Teorie e buone pratiche negli enti di ricerca”. Cnr Edizioni. ISBN 978 88 8080 380 5 Doi: 10.26324/2020Ricomunicare.

Grazie a:

  • Luciana Onorato
  • Francesco Mastromauro
  • Coro dell'Area della Ricerca di Milano, diretto dal m° Paolo Tagliolato
  • GRASC (Gruppo Ricreativo Aggregativo Sportivo Culturale) CNR